martedì 8 marzo 2016

Repubblica 8.3.16
Prigionieri del panico
A questo punto è del tutto evidente che per l’Unione europea non si tratta di aiutare la Turchia ma di retribuire il custode dei flussi
di Roberto Toscano

CI sono due modi di fare politica, in particolare politica estera. Il primo consiste nell’analizzare gli elementi di una situazione rapportandoli ai propri obiettivi e predisponendo strategie e tattiche. Il secondo consiste nel vivere alla giornata, rinviando le decisioni nella speranza di potere indefinitamente eludere i problemi.
POI, una volta scoppiate le crisi, si reagisce in modo scomposto sulla base del panico e con una sostanziale perdita di controllo.
È doloroso ma inevitabile constatare che di fronte alle più drammatiche sfide del nostro tempo, dalla crisi economico-finanziaria alla sicurezza alle migrazioni, il modo di fare politica dell’Unione Europea ricade nella seconda categoria.
Le conseguenze sono gravi perché è vero in politica quello che è vero nella medicina, cioè che il ritardo della diagnosi e della terapia finisce per rendere i problemi drammatici quando non incurabili. Ma in politica le cose vengono aggravate da un altro fattore: il nostro panico viene facilmente captato dall’interlocutore, per cui diventa irresistibile approfittarne imponendo i propri interessi a scapito dei nostri.
Tayyip Erdogan — la cui abilità e spregiudicatezza sono paragonabili a quelle di un altro difficile interlocutore dell’Europa, Vladimir Putin — ha capito che nei confronti della crisi dei migranti l’Europa è nel panico totale. Lo è non perché la situazione sia materialmente ingestibile, ma perché una sua gestione efficace e sostenibile richiederebbe qualcosa che l’Unione non è oggi in grado di produrre: una ripartizione degli oneri che accantoni l’assurda regola di Dublino (il primo Paese che li riceve, da Lampedusa a Lesbo, se li tiene) e soprattutto una duplice solidarietà, quella nei confronti degli infelici che chiedono di essere accolti e quella nei confronti dei partner direttamente esposti all’arrivo di centinaia di migliaia di migranti.
Ieri il Primo Ministro turco è arrivato a Bruxelles tutt’altro che con il cappello in mano, anzi, con richieste esigenti e non troppo sottilmente ricattatorie. Ha detto che solo la Turchia può controllare il flusso di migranti, ma che lo farà solo in cambio di soldi, tanti soldi — altri 3 miliardi di euro in aggiunta ai 3 miliardi già stanziati, di cui ha sollecitato il pronto versamento.
È a questo punto del tutto evidente che non si tratta per l’Europa di aiutare la Turchia — come sarebbe giusto — a garantire migliori condizioni per i due milioni e mezzo di migranti, in maggioranza siriani, che già si trovano sul suo territorio, ma piuttosto di retribuire il custode degli accessi all’Europa per un’azione di blocco dei flussi. Ricordate l’“amico Muammar”, cui noi italiani avevamo affidato il compito, politicamente tutt’altro che gratuito, di fermare l’arrivo sulle nostre coste di migranti africani? Oggi l’Europa conta sull’“amico Tayyip”. E anche per lui la priorità in questo scambio non è economica, ma politica. Il suo obiettivo è quello di un’accelerazione del processo di adesione della Turchia all’Unione — un’accelerazione che, dopo anni in cui noi italiani eravamo praticamente soli nel sostenere la possibilità di una Turchia nella Ue, adesso vede tutto un fiorire di disponibilità proprio nel momento in cui la Turchia si allontana a grande velocità da quei “criteri di Copenaghen” che dovrebbero costituire un vero e proprio filtro, in termini di democrazia e libertà, per l’accesso all’Unione. Per Erdogan, di cui è permesso di dubitare la vocazione europea, si tratta di invertire, grazie allo “sdoganamento” che deriverebbe da un avvicinamento all’Europa, l’isolamento derivante da una politica estera ad un tempo aggressiva e fallimentare.
La coincidenza del summit Ue/Turchia con il commissariamento del quotidiano di opposizione Zaman (che ha subito riaperto con un numero di sfacciata ortodossia di regime e una foto di Erdogan in copertina) ha il sapore di una sfida che purtroppo Ankara crede non sia troppo difficile vincere.
Sia Federica Mogherini che Martin Schulz e Matteo Renzi hanno espresso preoccupazione per la situazione delle libertà in Turchia, a partire dalla libertà di stampa. Un richiamo doveroso, fatto da due esponenti la cui credibilità democratica non ha bisogno di essere dimostrata — ma che rischia di risultare del tutto simbolico e inefficace di fronte al prevalere del panico che viene alimentato soprattutto nell’Europa centro-orientale (ma non solo) da chi promuove in sede politica il risorgere di egoismi nazionali in chiave xenofoba e illiberale. Una regressione che d’altra parte non avrebbe possibilità di prevalere se da molto prima della crisi delle migrazioni non si registrasse l’indebolimento della “spinta propulsiva” del processo di integrazione europea.
Viene da parafrasare quello che una volta Gandhi rispose quando gli chiesero cosa pensasse della civiltà occidentale, e dire: «L’Unione Europea? Sarebbe un’ottima idea».
L’autore è diplomatico e scrittore, già Ambasciatore in Iran e India