Repubblica 7.3.16
Così si svela il volto segreto della divina Misericordia
La personificazione della virtù nell’arte sacra è rara e spesso affidata a Maria. Per evitare la “femminilizzazione” di Dio
di Tomaso Montanari
Misericordiae
vultus è il titolo della bolla con cui papa Francesco ha indetto il
giubileo straordinario. Ma dove possiamo vederlo, il volto della
misericordia? In quale immagine, in quale opera d’arte, in quale
iconografia? La risposta è sorprendente: nell’arte sacra la
personificazione della Misericordia non ha quasi avuto diritto di
cittadinanza. Tutta la scena è stata occupata dalle virtù teologali
(Fede, Speranza, Carità), e dalle consorelle cardinali (Prudenza,
Giustizia, Fortezza, Temperanza): perché la Misericordia non è una
virtù, ma, come scriveva già Dante, «è passione», cioè un moto
profondissimo
dell’anima. E questo ha sempre insospettito la macchina del potere ecclesiastico, che ha preferito doti meno eversive.
Esiste,
certo, la tradizione iconografica delle opere di misericordia, che ha
prediletto le sette corporali, raffigurandole per esempio negli ospedali
(si pensi al fregio di quello del Ceppo, a Pistoia, eseguito intorno al
1525 da Santi Buglioni). In un suo recente libro ( La mia idea di arte,
a cura di Tiziana Lupi) papa Francesco ha incluso una di queste serie
tra gli esempi che fanno capire il suo rapporto con il figurativo: le
Opere
di misericordia di Olivuccio di Ciccarello, che oggi sono nella
Pinacoteca Vaticana, ma che furono dipinte, nei primi anni del
Quattrocento, per la Chiesa della Misericordia di Ancona. Il papa ama
questo ciclo perché qua «gli “scartati” della società si sono affermati
come attori principali della rappresentazione »: un punto di vista
radicalmente evangelico, che probabilmente i contemporanei di Olivuccio
non avrebbero condiviso, concentrati com’erano sul ruolo non dei
bisognosi, ma dei benefattori, cioè di se stessi. Il papa potrebbe
trovare, sempre nei Sacri Palazzi, un esempio monumentale di questo
“protagonismo degli scartati”: l’affresco in cui Beato Angelico (pittore
santo e frate mendicante) esalta san Lorenzo che distribuisce ai poveri
i beni della Chiesa. È somma la dignità con cui i mendicanti, gli
straccioni, i bambini scalzi dell’Angelico occupano la prospettiva della
basilica aulica in cui avviene il gesto eversivo: la gerarchia
ecclesiastica che si spoglia delle sue ricchezze, e sul muro della
cappella privata di un papa!
Questo filone iconografico tocca l’apice nella pala d’altare in cui Caravaggio concentra le
Sette Opere di Misericordia,
ambientandole
— scrive Roberto Longhi — «all’imbrunire, in un quadrivio napoletano»,
con gli angeli che volano «all’altezza dei primi piani, nello sgocciolìo
delle lenzuola lavate alla peggio, e sventolanti a festone sotto la
finestra cui ora si affaccia una “nostra donna col Bambino” ». Grazie
alla presenza di Maria — salutata fin dal X secolo come «mater
misericordiae» — Caravaggio fonde l’iconografia delle Sette opere con
quella della Madonna della Misericordia, colei che riunisce sotto il suo
manto tutti i fedeli: un’immagine diffusissima nel Medioevo italiano,
che Piero della Francesca (nel polittico di Borgo San Sepolcro, dipinto
intorno al 1460) trasforma in uno spazio abitabile, una vera
architettura di misericordia.
Il volto della misericordia è dunque
il volto di Maria? Nell’arte italiana certamente sì: una scelta
rassicurante, che pone tuttavia due problemi. Il primo è la
divaricazione tra la misericordia della Madre e la verità del Figlio:
quando invece il fulcro dell’annuncio messianico è che «misericordia e
verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Salmo 84). Il
secondo è che il monopolio di Maria serve a non attribuire a Gesù o a
Dio Padre la visceralità della misericordia: ad evitare, insomma, una
femminilizzazione di Dio che avrebbe stravolto gli stereotipi di genere.
Dopo
il Concilio di Trento la Chiesa cercherà di eliminare perfino le
immagini in cui è la stessa Maria ad apparire troppo umana (lo
svenimento sotto la Croce, per esempio): figuriamoci rappresentare Gesù,
o Dio Padre, commossi! E il punto, invece, era proprio quello: Dio è il
Misericordioso perché di fronte ai figli le sue viscere di padre si
muovono, e nemmeno Lui può fermarle. Ed è questa meravigliosa tenerezza
di un Padre travolto dalla misericordia che sta oggi al centro della
teologia di papa Francesco.
Quando apprende che il suo amico
Lazzaro è morto, Gesù piange: ma inutilmente si cercherebbe il Signore
in lacrime nella nostra storia dell’arte. E la traduzione italiana dei
vangeli ha edulcorato, fino a travisarlo, il vasto repertorio in cui
Gesù sente, letteralmente, il movimento delle proprie viscere
(«splancna», in greco). Nella città di Nain vede una vedova che porta
alla sepoltura il suo figlio unico: senza che nessuno gli chieda nulla,
Gesù si avvicina e lo resuscita, perché «le sue viscere lo avevano
portato verso di lei» (Luca 7). Lo stesso avviene per i due ciechi di
Gerico (Matteo 20). E quando il lebbroso gli grida: «se vuoi, puoi
guarirmi », è il movimento delle viscere che trascina Gesù a
rispondergli «Lo voglio, guarisci! » (Marco, 1).
Ma questo Gesù
visceralmente misericordioso non ha alcun diritto di cittadinanza
nell’iconografia, controllata per secoli dalla Chiesa. Eppure è Gesù
stesso a suggerire alcune immagini: «Gerusalemme, Gerusalemme, che
uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho
voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina la sua covata sotto le
ali, e voi non avete voluto!» (Luca 13). Ma se abbiamo, in secoli
d’arte cristiana, infinite rappresentazioni di un Gesù-pellicano che si
squarcia il petto per nutrire i piccoli (trasparente allegoria della
Passione), non abbiamo nemmeno un Gesù-chioccia: perché un Cristo
femminile, uterino, era impensabile per il potere maschile del clero.
E,
allora, dove cercare? Nella bolla, Francesco cita un’immagine
evangelica che gli è particolarmente cara: quella della vocazione di
Matteo. Gesù sceglie come apostolo ed evangelista l’esattore delle
tasse, collaborazionista dei romani: il peggio in assoluto. Il
Venerabile Beda ha commentato che qui Gesù agisce «miserando atque
eligendo », cioè scegliendo attraverso la misericordia: ed è questa la
frase che Bergoglio ha voluto come motto papale. In un’altra occasione
il papa ha parlato del suo amore per il quadro più celebre che
rappresenta quella scena: la Vocazione di Matteo di Caravaggio in San
Luigi dei Francesi, vero manifesto della misericordia come metodo di
governo.
Ma forse l’opera che più di ogni altra può diventare
l’icona di questo Giubileo (e che infatti è già stampata sulle copertine
di alcune traduzioni della bolla di indizione) è il Figliol prodigo (o
meglio, appunto, il Padre misericordioso) di Rembrandt (1666-69 circa).
Anche perché la parabola, su cui papa Francesco si è soffermato ieri
all’Angelus, potrebbe essere il vero fulcro tematico di questo Giubileo.
Sotto
lo sguardo ostile del fratello virtuoso, il figlio corrotto e ingrato è
tornato, lacero e miserabile. Il padre si china verso di lui, lo
accoglie: lo abbraccia e insieme lo benedice, con due mani immense. Non
chiede, non processa, non rimprovera: chiude gli occhi per la
commozione, e nessuno osa rompere il silenzio. È stato un artista
protestante, lontano da ogni clero, a fare il più bel ritratto delle
viscere misericordiose di un Dio padre che è anche madre.