Repubblica 6.3.16
La moda europea dei referendum
di Ian Buruma
IL
PRIMO ministro ungherese Viktor Orbán ha già detto che l’Ungheria si
opporrà al loro ingresso. «Tutti i terroristi sono praticamente
immigrati», ha affermato. E il referendum probabilmente avvalorerà la
sua posizione. Il referendum più strano è forse quello che si terrà nei
Paesi Bassi a seguito di una singolare campagna: ad aprile i cittadini
olandesi dovranno decidere se sottoscrivere o meno un accordo di
associazione tra Ue ed Ucraina che è stato già accettato da tutti gli
altri Paesi membri dell’Ue, ma che senza gli olandesi non potrà essere
ratificato. Si potrebbe supporre che i dettagli degli accordi
commerciali e delle barriere tariffarie con l’Ucraina suscitino nella
maggior parte degli elettori olandesi un sentimento di perplessità, e ci
si potrebbe anche domandare perché mai essi dovrebbero interessarsene
tanto da tenere un referendum. Il fatto è che i referendum soddisfano il
vento populista che spira su molti Paesi: dall’America di Donald Trump
all’Ungheria di Viktor Orbán.
I referendum rientrano in quella che
chiamiamo “democrazia diretta”. La voce del popolo (o piuttosto: del
Popolo) non si esprime attraverso i rappresentanti da esso eletti al
Parlamento, bensì direttamente, tramite le consultazioni. Nel 1945,
quando Winston Churchill propose un referendum con cui il popolo
britannico potesse decidere se proseguire con il governo di coalizione
del periodo bellico, il leader laburista Clement Attlee si oppose.
Attlee affermò che i referendum erano “non-britannici”, nonché uno
«strumento dei dittatori e dei demagoghi». Aveva ragione. Anche se le
democrazie rappresentative ricorrono talvolta ai referendum, i dittatori
li guardano con entusiasmo ben maggiore. Dopo aver invaso l’Austria nel
1938 Hitler domandò agli austriaci, tramite un plebiscito, se volessero
essere annessi alla Germania. Un’offerta che essi non poterono certo
rifiutare. Ai despoti piace ricevere l’appoggio dei plebisciti perché
questi non solo fingono di rappresentare il Popolo, ma lo personificano.
Sono il Popolo.
L’attuale moda dei referendum tradisce una
diffidenza nei confronti dei politici. In una democrazia liberale di
norma diamo il nostro voto a uomini e donne che ci aspettiamo studino e
decidano di questioni di cui la maggior parte dei cittadini comuni non
ha né il tempo né la competenza di occuparsi in prima persona. Gli
accordi commerciali con l’Ucraina rappresentano un tema di cui gli
elettori di solito non sono chiamati ad interessarsi direttamente. Di
norma però un referendum non dà la misura accurata delle facoltà
razionali della gente, né ne mette alla prova la competenza. I
referendum si basano sulle sensazioni “di pancia”, che possono essere
facilmente manipolate dai demagoghi. Ecco perché a loro piacciono tanto.
Ad
oggi il dibattito sulla brexit in Gran Bretagna ha assunto quasi
esclusivamente dei toni emotivi: la grandezza storica della Gran
Bretagna, gli orrori delle tirannie straniere o, al contrario, la paura
di ciò che potrebbe accadere nel caso in cui lo status quo venisse
rovesciato. E mentre gli elettori britannici che hanno idea di come
funzioni davvero il Consiglio europeo sono pochissimi, la maggior parte
di loro sa bene che la Gran Bretagna tenne testa a Hitler, o che
potrebbe “invasa” dagli immigrati.
Solitamente, tramite un
referendum il popolo decide la posizione da adottare sulla base di
motivi che hanno poco a che fare con il quesito che gli viene posto. In
Gran Bretagna vi è chi sarebbe disposto a uscire dall’Ue solo perché non
ama il primo ministro Cameron, che è a favore della permanenza
nell’Unione europea. Nel 2005 gli elettori dei Paesi Bassi e
dell’Irlanda votarono contro la Costituzione dell’Ue. Probabilmente
pochissimi tra loro avevano mai letto la Costituzione, che è in effetti
un documento illeggibile. Il voto contrario derivava da un generale
scontento nei confronti delle élite politiche associate a “Bruxelles”.
La
voglia di referendum non è solo un indice di divisioni nazionali
interne, ma rappresenta l’ennesimo sintomo di quella rivendicazione
populista globale che esorta a “riprendersi il proprio Paese”. Una
posizione forse irragionevole (se uscisse dall’Unione europea la Gran
Bretagna potrebbe finire con l’esercitare meno potere sul proprio
destino di quanto ne avrebbe se rimanesse), e tuttavia la crisi della
fiducia deve essere presa seriamente. Perché anche se i referendum sono
spesso futili, le loro conseguenze non lo sono. Ciò che accade in
Ucraina è importante. L’uscita della Gran Bretagna dall’Ue potrebbe
avere conseguenze devastanti non solo per il Regno Unito, ma anche per
il resto dell’Europa. L’esempio dell’Ungheria, ammesso che essa riesca a
rifiutarsi di collaborare alla risoluzione della crisi dei rifugiati,
potrebbe indurre altri Paesi a fare altrettanto.
Il problema
fondamentale è che un gran numero di persone non si sentono
rappresentate. I vecchi partiti politici – che sono governati dalle
vecchie élite e sfruttano i canali tradizionali di influenza, non danno
più ai cittadini il senso di partecipare alla democrazia. La
straordinaria influenza esercitata negli Usa da un manipolo di
miliardari e la mancanza di trasparenza nella politica dell’Ue
peggiorano il problema.
È difficile che la democrazia diretta
possa ripristinare la fiducia del popolo nei confronti dei suoi
rappresentanti politici. Ma se non verrà ristabilito un maggior livello
di fiducia, il potere andrà a coloro che affermano di parlare a nome del
Popolo, e dai quali nulla di buono potrà mai venire.
Traduzione
di Marzia Porta Ian Buruma è saggista e scrittore, di origine olandese
naturalizzato britannico. L’ultimo libro pubblicato in Italia è Anno
Zero ( Mondadori)