Repubblica 6.3.16
Il nuovo obiettivo di crescita è un primo passo verso il realismo
Le piazze finanziarie sull’ottovolante yuan Pechino al bivio tra errori e stabilità
di Alessandro Penati
Il
rischio di svalutazione dello yuan è una delle cause della volatilità
dei mercati. L’improvviso deprezzamento di ferragosto orchestrato dalla
Banca Centrale, seppur modesto (2,7% rispetto al dollaro), ha diffuso il
timore che le Autorità cinesi vogliano usare la svalutazione per
sostenere un modello di crescita che ha smesso di funzionare. La Banca
Centrale è così intervenuta per stabilizzare il cambio, bruciando 760
dei quasi 4.000 miliardi di riserve ufficiali accumulati negli anni (100
solo a febbraio). Può continuare a farlo, ma non all’infinito: e più
interviene, più le aspettative di svalutazione si rafforzano.Le
pressioni sul cambio sono generate dalla fuga di capitali cinesi che non
hanno più fiducia nella politica economica del governo: la bilancia
commerciale con l’estero infatti è in forte avanzo (293 miliardi negli
ultimi 12 mesi), ma non basta a compensare la fuoriuscita da transazioni
finanziarie, dovute alle imprese cinesi che coprono il debito
denominato in dollari (circa 25% dei 3,300 miliardi di bond dei paesi
emergenti), e da operazioni non registrate ufficialmente (408 miliardi
la fuoriuscita nei soli primi 9 mesi del 2015).
La crescita cinese
è stata drogata da massicci investimenti in infrastrutture e industria
di base da parte di imprese pubbliche inefficienti, finanziate da
prestiti facili erogati da banche pubbliche conniventi; e da
investimenti immobiliari spinti dall’urbanizzazione indotta dalla rapida
industrializzazione. Memore della crisi asiatica del ’98, il governo
non ha voluto ricorrere ai capitali esteri e ha accumulato enormi
riserve valutarie sperando così di isolare il paese da crisi esterne.
Boom degli investimenti e accumulo di riserve sono stati pertanto
finanziati dal risparmio delle famiglie, che hanno dovuto comprimere
oltremisura i consumi: oggi solo il 36% del Pil, contro il 42% degli
investimenti (in Italia, rispettivamente, il 61% e 17%). La Cina deve
quindi cambiare, accettando uno sviluppo più lento, basato sui consumi.
Deve eliminare l’enorme capacità inutilizzata in tutte le industrie di
base e delle costruzioni, creando però disoccupazione e disagio sociale;
e deve smaltire lo stock di debito delle imprese, arrivato a 160% del
Pil, in buona parte sofferenze che grava sui bilanci di banche
sottocapitalizzate e inefficienti. Per uscirne, la Cina sa di avere
bisogno di un mercato interno dei capitali funzionale e aperto agli
investitori esteri, in grado di finanziare le imprese con corporate bond
e di assorbire le sofferenze tramite le cartolarizzazioni. Ma persegue
l’obiettivo in modo sbagliato. Avrebbe dovuto prima creare un mercato
finanziario interno, poi lasciar fluttuare liberamente il cambio, e
infine liberalizzare i movimenti di capitale; invece ha liberalizzato i
movimenti di capitale, senza aver creato un mercato domestico di bond in
renminbi e ristrutturato il sistema bancario. Così, invece di attirare i
capitali esteri, ha fatto fuggire quelli cinesi.
Secondo errore:
con la libertà di movimento dei capitali si può perseguire un obiettivo
di cambio, o un obiettivo di politica monetaria. Non entrambi. La Banca
Centrale invece persegue una forte politica espansiva, creando una
liquidità che esce dal paese e mette sotto pressione il cambio; ma
avendo anche un obiettivo di stabilità dello yuan, è costretta a
ulteriori interventi.
La Cina, e lo yuan, possono percorrere due
strade. Una virtuosa: tagliare l’eccesso di capacità produttiva delle
imprese pubbliche inefficienti, usando la leva fiscale per creare il
welfare necessario a contrastare il disagio sociale causato dalle
ristrutturazioni, e per sostenere la domanda con tagli delle tasse. Deve
poi trasferire l’onere dei crediti deteriorati allo Stato, in modo che
le banche possano essere privatizzate e rese competitive. Il livello del
deficit e il debito pubblico (2,3% e 41% del Pil rispettivamente) lo
permettono. La politica monetaria deve contenere la crescita esplosiva
dei prestiti (+15% a gennaio), non alimentarla. Così si
stabilizzerebbero le aspettative interne sul cambio e il flusso di
capitali si invertirebbe, creando un grande mercato domestico per i bond
in renminbi. L’obiettivo di crescita realistico che il Congresso
Nazionale del Popolo ha fissato ieri va nella giusta direzione.
L’alternativa
è insistere con politiche incoerenti, che porterebbero inevitabilmente a
rigidi controlli dei movimenti di capitale, facendo arretrare le
lancette dell’orologio dello sviluppo cinese. E creando un “rischio
yuan” per i tutti i mercati.