domenica 6 marzo 2016

Corriere 6.3.16
Di quanti partiti ha bisogno la democrazia americana
risponde Sergio Romano


È ormai assodato che, salvo sorprese dell’ultima ora, il prossimo inquilino della Casa Bianca uscirà dal ballottaggio tra Donald Trump e Hillary Clinton; due personaggi molto modesti e di basso profilo. Il primo preoccupa per i suoi modi, discorsi, atteggiamenti e idee piuttosto discutibili e per nulla tranquillizzanti (preoccupano perfino il suo stesso partito). L’altra candidata gode chiaramente di luce riflessa giocando su un nome ben noto al popolo americano. Non si pretende di trovare tra i papabili nomi di prestigio al livello di un Roosevelt, un Truman, un Eisenhower; ma è mai possibile che il grande popolo statunitense non riesca a far emergere un candidato serio, uno statista di spessore riconosciuto che possa prendere in mano sia la nazione che, di riflesso, il mondo intero? Preoccupa non poco il pensiero che l’uomo (o la donna) più potente del mondo possa uscire dallo scontro Trump/Clinton. Mi piacerebbe conoscere il suo pensiero.
Mario Donetti

Caro Donetti,
Quello che lei ha descritto è un duello zoppo e anomalo fra due persone che hanno caratteristiche molto diverse. Hillary Clinton è una professionista della politica americana. Ne conosce le regole, ne parla la lingua, ne ha respirato l’aria sin dal suo primo incontro con il giovane Bill. Sa fino a dove può spingersi con le sue promesse elettorali e non adotterà mai posizioni sgradite ai più autorevoli notabili del suo campo perché ha bisogno, per vincere, della macchina del partito democratico. Donald Trump, invece, è un corsaro populista, non molto diverso da alcuni personaggi che hanno fatto la loro apparizione sulla scena politica europea degli ultimi decenni. Non tutti dicono le stesse cose, ma tutti hanno un programma che pretende di dare una risposta alle principali fobie dei loro connazionali: insicurezza, caduta del livello di vita, immigrazione, odio delle istituzioni Con una importante differenza. Mentre i populisti europei fondano un partito o rinnovano i quadri di una formazione politica già esistente, Trump deve vincere in un sistema bipartitico in cui le candidature si conquistano alla fine di due percorsi popolari paralleli, consolidati dalla tradizione e destinati a concludersi con una trionfale Convenzione. Trump ha scelto di servirsi del partito repubblicano perché è quello che sembra garantirgli, in questo momento, il maggior numero di elettori. Ma questo partito non è la sua casa.
Non è sorprendente, in queste circostanze, che si cominci a parlare della nascita di una nuova formazione politica. Se la gloriosa casa di Lincoln (come viene definito il partito repubblicano) rischia di essere occupata da un estraneo, perché non creare una casa nuova in cui il patrimonio culturale del partito non venga sperperato? È la proposta di Danielle Pletka, vice-presidente dell’American Enterprise Institute (un centro di studi conservatore) apparsa sul Financial Times del 3 marzo. E potrebbe essere il disegno di Michael Bloomberg, ricco uomo d’affari e sindaco di New York dal 2001 al 2009, più volte tentato dalla Casa Bianca.