domenica 6 marzo 2016

Repubblica 6.3.16
Il dilemma della guerra
di Piero Ignazi


ANDARE o non andare alla guerra? Inutile girare attorno alle parole. La crisi libica presenta uno scenario su cui incombe l’opzione militare. Non è la prima volta che affrontiamo questo nodo. Dal crollo del muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica gli interventi militari di coalizioni variamente composte si sono susseguiti a ritmi incalzanti: Iraq 1991, Somalia 1992, Balcani 1993-1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libano 2006, Libia 2011, Siria 2013, senza contare altri interventi circoscritti al teatro africano, soprattutto da parte francese, il più importante dei quali riguarda quello in Mali nel 2013 per fermare l’ondata jihadista in quel Paese. In tutte queste operazioni l’Italia è stata presente a vario titolo e solo in Libano, iniziativa promossa fortemente dall’allora governo Prodi, non si è praticamente sparato un colpo: in quel caso fu interpretata alla lettera la filosofia delle operazioni di peacekeeping.
Ma ora non si tratta di interporsi tra fazioni in lotta e riportare la pace. Lo schema con il quale sono state impostate tutte le iniziative svolte sotto l’ egida Onu, più quella in Kossovo nel 1999, si fondavano su una nuova visione dell’ordine internazionale: il diritto di intervento umanitario. La comunità internazionale si sentiva autorizzata ad intervenire laddove i diritti umani venivano violati innescando persecuzioni, stermini e pulizie etniche. Anche l’intervento in Libia , è bene ricordarlo ai tanti smemorati, avvenne per evitare che l’esercito di Gheddafi facesse piazza pulita degli insorti di Bengasi, intenzione spavaldamente manifestata dal ras libico in più occasioni. Quindi i bombardamenti aerei sulla Libia, iniziati su mandato Onu - contrariamente a quanto accadde in Iraq nel 2003 – si inserivano perfettamente nella filosofia “umanitaria”. Tra l’altro, in quei giorni Gheddafi venne deferito alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. Poi ci vollero sei mesi, da marzo a settembre, perché il regime crollasse. Ad ogni modo vale la pena ricordare che lo schema delle operazioni in Libia nel 2011 era lo stesso di quello tante volte richiesto, fino a pochi mesi fa, in Siria: un intervento occidentale a favore degli insorti contro il regime autoritario in carica.
Nell’ultimo anno gli attentanti dell’Is hanno cambiato tutto. Non c’è più traccia del diritto umanitario a protezione delle popolazioni civili. Il problema è arginare il Califfato e impedire il collasso definitivo della Libia con conseguente conquista di ulteriore territorio e di risorse vitali da parte dell’Is. Il nuovo governo libico, faticosamente instaurato dopo anni di negoziati, stenta a decollare e non potrà in breve tempo - e forse nemmeno nel lungo periodo - coalizzare tutte le milizie armate contro lo stato islamico. Ma l’urgenza del momento non consente dilazioni. Gli alleati occidentali, con una Russia sorniona in attesa di scegliere quale parte giocare, hanno già deciso e l’ambasciatore americano lo ha irritualmente segnalato in una recente intervista. Il governo italiano invece prende tempo, enfatizzando il mantra ufficiale di tutti i paesi, anche di quelli che stanno già operando sul terreno: nessun intervento senza una richiesta formale del nuovo governo libico. Solo che restare a guardare significa dare tempo alle milizie del califfato di consolidarsi sul terreno.
Il dilemma in cui si trova il nostro governo discende dalla visione – ampiamente accettata – secondo la quale le operazioni militari partono solo per evitare violenze sui civili. Ora in Libia lo scenario è diverso : c’è una guerra per bande tra centinaia di fazioni di cui l’Is è solo una componente. Come giustificare allora agli occhi dell’opinione pubblica un intervento? La richiesta di aiuto da parte del nuovo governo libico per “pacificare” il Paese basta a convincere gli italiani? Nemmeno l’uccisione dei due connazionali sembra scuotere una opinione pubblica in grande maggioranza contraria ad ogni proiezione militare. Certo, una classe politica seria e consapevole deve dire e ripetere con grande chiarezza che il rischio di un fallimento, politico e militare, di un intervento in Libia è molto alto. Eppure una iniziativa da parte italiana va presa, anche perché altri si muoveranno. L’inerzia è la peggiore delle soluzioni. L’Italia è a poche miglia dalle coste libiche e quello che succede nel golfo della Sirte ci tocca direttamente. Se veramente il governo italiano vuole far cambiare verso alla politica estera italiana deve essere il protagonista di una azione politica e, inevitabilmente, militare. Eventualmente con modalità diverse rispetto agli alleati, purché concordate. Altrimenti si rimane nelle retrovie, come accadde nel 2011. E si retrocede nella considerazione internazionale. Un alto rango nel ranking delle nazioni non si conquista senza giocare un ruolo attivo negli scenari di crisi. Con tutti i rischi connessi.
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Un rango tra le nazioni lo si conquista giocando un ruolo attivo Con i rischi connessi