Il Sole 6.3.16
La grande spartizione
Un bottino da (almeno) 130 miliardi
di Alberto Negri
Quando
si incontreranno martedì al palazzo Ducale di Venezia, Matteo Renzi e
François Hollande guardandosi negli occhi dovrebbero farsi una domanda:
per quali ragioni facciamo la guerra in Libia?
La risposta più
ovvia - il Califfato - è quella di comodo. La guerra di Libia è partita
nel 2011 con un intervento francese, britannico e americano che con la
fine di Gheddafi è diventato conflitto tra le tribù, le milizie e dentro
l’Islam, che però è sempre rimasto una guerra di interessi geopolitici
ed economici. L’esito non è stato l’avvento della democrazia ma è
sintetizzato in un dato: la Libia era al primo posto in Africa
nell’indice Onu dello sviluppo umano, adesso è uno stato fallito.
La
guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della
torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e
Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di
petrolio.
Qui si possono liberare alcune delle più importanti
risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei
consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola
alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e
gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata
manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati
deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare.
Per
loro, anche se l’Italia ha perso in Libia 5 miliardi di commesse,
stiamo già accantonando risorse per un contingente virtuale in barili di
oro nero. Non è così naturalmente, ma “deve” essere così: per questo
l’ambasciatore Usa azzarda a chiederci spudoratamente 5mila uomini. La
dichiarazione di John Phillips, addolcita dalla promessa di un comando
militare all’Italia, sottolinea la nostra irrilevanza.
La Libia è
un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto
nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per
zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi. Sono
stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della Banca
centrale e del Fondo sovrano libico che sta a Londra dove ha studiato
per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il figlio di Gheddafi,
un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari di tutti gli arabi
che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio nella City. Oltre
alla Bp e alla Shell in Cirenaica - dove peraltro ci sono consorzi
francesi, americani tedeschi e cinesi - gli inglesi hanno da difendere
l’asset finanziario dei petrodollari.
Anche i russi, estromessi
nel 2011 perché contrari ai bombardamenti, vogliono dire la loro: lo
faranno attraverso l’Egitto del generale Al Sisi al quale vendono armi a
tutto spiano insieme alla Francia. Al Sisi considera la Cirenaica una
storica provincia egiziana, alla stregua di re Faruk che la reclamava
nel 1943 a Churchill: «Non mi risulta», fu allora la secca risposta del
premier britannico. Ma ce n’è per tutti gli appetiti: questo è il
fascino tenebroso della guerra libica.
Il bottino libico,
nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un
sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà
della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna
quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e
dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione
strategica.
Ai libici, divisi e frammentati, messi insieme in un
finto governo di “non unità nazionale”, il piano non piacerà perché
hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la
torta energetica senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto
tutela. E insieme ai litigi libici ci sono le trame delle potenze arabe
e musulmane. Sono “i pompieri incendiari” che sponsorizzano le loro
fazioni favorite: l’Egitto manovra il generale Khalifa Haftar, il Qatar
seduce con dollari sonanti gli islamisti radicali a Tripoli, gli Emirati
si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu Bernardino Leòn per
appoggiare Tobruk; senza contare la Turchia, che dalla Siria ha
rispedito i jihadisti libici a fare la guerra santa nella Sirte.
La
lotta al Califfato è solo un aspetto del conflitto, anzi l’Isis si è
inserito proprio quando si infiammava la guerra per il petrolio. Ma gli
interessi occidentali, mascherati da obiettivi comuni, sono divergenti
dall’inizio quando il presidente francese Nicolas Sarkozy attaccò
Gheddafi senza neppure farci una telefonata. Oggi sappiamo i retroscena.
In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il
funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire
il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta
panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da
Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi.
Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total. È
così che prepariamo la guerra: in compagnia di finti
amici-concorrenti-rivali, esattamente come faceva la repubblica dei
Dogi.