Il Sole 6.3.16
Coalizione nel caos e il rischio Bosnia
di Vittorio Emanuele Parsi
Come
se non bastasse il caos che ormai regna sovrano in Libia, anche nella
“coalition of willing” che dovrebbe collaborare con il costituendo (?)
governo di unità nazionale libico, sembra emergere una certa confusione.
Data
continuamente per imminente, l’operazione congiunta continua a subire
rinvii. Com’è stato opportunamente ribadito dal governo italiano, in
assenza di una richiesta ufficiale di assistenza da parte delle autorità
libiche mancherebbero i presupposti giuridici e politici per un
intervento esterno. Ma i fatti di questi giorni, a cominciare
dall’irrituale ma non certo errabonda intervista rilasciata al
“Corriere” dall’ambasciatore americano in Italia e dalle reazioni
politiche che ha provocato a Roma, attestano che il ritardo nella
formazione del nuovo Esecutivo unitario libico, tutto sommato, copre un
problema ben più consistente: ovvero, che senza un accordo effettivo,
trasparente e non reticente da parte dei Paesi disponibili a farne
parte, la missione è destinata a non vedere neppure la luce o al più
clamoroso fallimento.
La «totale identità di vedute», ribadita
appena qualche giorno fa dal nostro governo nei confronti
dell’Amministrazione americana, anche tra i tanti partner della
coalizione esiste solo sulla carta e a livello di dichiarazioni di
principio, se non astratte. La realtà è che ognuno dei principali attori
sa ciò che è disposto a fare e sa ancora più chiaramente che cosa non
intende fare: ma siamo ancora lontanissimi dallo sviluppo di una “grande
strategia” coerente e condivisa da tutti.
Così ad esempio,
americani e italiani condividono l’opposizione a mettere i propri boots
on the ground e l’aspirazione a leading from behind. Ma sono entrambi
consapevoli che, in assenza di truppe sul terreno, sarà molto difficile
avere ragione del nemico. L’entusiastico sostegno americano alla
leadership italiana delle operazioni in Libia rivela così una componente
“equivocata” ma che gli americani davano per implicita o hanno inteso
rendere esplicita a mano a mano che si palesavano i limiti del nostro
possibile coinvolgimento: se l’Italia desidera la leadership – anche in
virtù dei suoi interessi e della sua conoscenza della situazione in
Libia – deve di necessità svolgere un ruolo maggiore nella missione
anche dal punto di vista militare.
L’Italia, dal canto suo,
continua a sottolineare l’aspetto “politico” dell’intera operazione e,
comunque, non intende assumersi il rischio di ritrovarsi impantanata in
Libia con l’eventualità che un’America meno direttamente invischiata e
in piena campagna presidenziale possa decidersi di sfilarsi per ragioni
di politica interna, lasciandoci da soli, insieme agli alleati europei e
mediterranei, a gestire una situazione evidentemente ben superiore alle
nostre capacità. Degli alleati ciò che più colpisce è come già ora,
prima che la missione prenda avvio, ognuno si stia muovendo in ordine
sparso e nella logica di rafforzare la propria posizione e i propri
interessi. Vale per i francesi e per gli inglesi, con le operazioni
svolte dalle rispettive forze speciali, che comunque vada costituiscono
dei “fatti compiuti”, quindi dei vincoli, con i quali la coalizione (e
la sua leadership) dovrà fare i conti. Ma vale anche per gli egiziani,
che stanno rafforzando la posizione del generale Haftar, e in tal senso
complicando la strada per la costituzione di quel governo di unità
nazionale (e di compromesso) senza il quale ogni possibilità di
intervento internazionale rischia di sfumare o cambiare completamente di
segno.
Tutto questo spiega la prudenza renziana, oltretutto
legata anche allo scarso sostegno interno (popolare e politico)
all’iniziativa libica. Resta il fatto che senza un impegno anche
militare più sostanzioso da parte di tutti – doverosamente associato
allo sforzo politico diplomatico nei confronti non tanto dei governi di
Tripoli e Tobruk ma dei loro protettori politici ad Ankara e Doha e al
Cairo e Riad – la missione non ha nessuna possibilità di successo. Anche
se domani stesso un governo di salvezza nazionale si costituisse in
Libia, la sua effettività sarebbe molto relativa, i problemi e le
divisioni resterebbero tutte sul terreno e gran parte dello sforzo per
consentire la stabilizzazione della Libia rimarrebbe sulle nostre
spalle.
Bisogna ribadirlo con molta fermezza: la missione in Libia
si configura come “una seconda Bosnia”, per costo, coinvolgimento e
durata ma in un’area infinitamente più instabile e pericolosa. Ciò su
cui occorre riflettere non è quindi se esistano miracolose ipotesi
alternative a un massiccio, prolungato e rischioso intervento insieme
politico e militare ma se, quanto e fino a quando potremmo permetterci
di non intervenire. E decidere di conseguenza.