Repubblica 5.3.16
La vera rivoluzione del voto alle donne
di Nadia Urbinati
LA
CONQUISTA del diritto di voto è stata per le donne di gran lunga più
difficile che per ogni altra fetta di popolazione, non solo in Italia.
Come Natalia Aspesi ha scritto su Repubblica introducendo il film
Suffragette, la lotta per il suffragio è stata lunga e dura, in tutti i
paesi, anche quelli di storia liberale come l’Inghilterra, o quelli che
nacquero sul consenso elettorale e l’eguaglianza, come gli Stati Uniti. È
quindi giusto dire che il decreto legislativo più rivoluzionario che ha
avuto l’Italia fu quello a firma De Gasperi- Togliatti che in data 31
gennaio 1945 riconobbe il diritto delle donne al voto, anche se non
all’eleggibilità, una discriminazione che sarebbe caduta di lì a poco:
ventuno furono le donne elette il 2 giugno 1946 all’Assemblea
costituente.
Quello suffragista fu il primo movimento globale, la
prima forma di mobilitazione rappresentativa che conquistò legittimità
mediante l’opinione e grazie a celebrità intellettuali che associarono
il loro nome alla causa. Harriet Taylor e il marito, John Stuart Mill,
furono tra i primi europei a collaborare al movimento, raccogliendo
finanziamenti e scrivendo proclami. Chi come Mill o il nostro Salvatore
Morelli provarono ad avanzare proposte di legge in tal senso trovò in
parlamento un muro: la proposta di Mill ottenne una settantina di voti,
quella di Morelli non venne neppure discussa. Certo, vi erano state,
anche in Italia, proposte per concedere alle donne il diritto di voto
amministrativo: ci provò Minghetti appena dopo l’unità, e poi il sindaco
di Firenze, Peruzzi, la cui moglie aveva anche organizzato un salotto
di discussione per preparare l’opinione suffragista. Tra gli invitati vi
era il giovane Vilfredo Pareto, allora un sostenitore radicale del
suffragio femminile (e della rappresentanza proporzionale!) e ammiratore
del
Subjection of Women ( La servitù delle donne) di Mill che
Annamaria Mozzoni tradusse in italiano nel 1870. Ma seppure moderata (e
reiterata altre volte fino all’avvento del fascismo), la proposta del
voto amministrativo non decollò.
Quale la ragione di tanta
ostilità? L’argomento più usato, un pregiudizio radicato da secoli, era
quello dell’impossibilità della donna di sviluppare ragionamenti di
giustizia perché incapace di giudizi di imparzialità. Destinata dalla
natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile
era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della
sua famiglia, non quello lontano e generale. La donna era votata
all’economia domestica quindi; quella politica era privilegio dei figli,
dei mariti e dei padri.
Quando questa idea così radicata nella
cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a
fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo. Fu la trasformazione
del voto da funzione (in difesa di interessi) a diritto della persona la
chiave di volta. Infatti, se la rappresentanza deve essere espressione
degli interessi che gli eletti svolgono con libero mandato e competenza,
perché il suffragio universale? James Mill, il teorico del governo
rappresentativo, scrisse negli anni Trenta dell’Ottocento che siccome
ogni interesse riflette quello degli altri, sembra ragionevole che il
voto del capofamiglia porterà in Parlamento anche le esigenze dei
componenti della famiglia, per cui non serve che i giovani maschi e le
donne votino. Fino a quando il voto fu inteso come funzione e non come
diritto di sovranità, l’esclusione delle donne fu ritenuta funzionale
alla loro vocazione di cura e giustificata con l’argomento della
rappresentanza surrogata.
Il Settecento radicale — l’illuminismo
francese — fu lo spartiacque. Quando il voto, a partire da Rousseau,
divenne la “volontà” del sovrano come libertà di darsi leggi, allora il
non voto parve subito segno di assoggettamento. Mary Wollstonecraft
volse questo argomento contro Rousseau stesso, il quale aveva escluso le
donne dalla città mostrando quanto il pregiudizio potesse contro la
logica. Ma con la Rivoluzione francese, il mutamento del paradigma della
legittimità politica fu radicale. Di qui si fece strada l’idea che il
governo fondato sul consenso elettorale non era semplicemente
rappresentativo degli interessi, ma costituzione di libertà. E nel 1792
Olympe de Gouges presentò al governo rivoluzionario una
Déclaration des droits de la femme nella quale venivano richiesti per le donne tutti i diritti civili e politici.
Siccome
il voto è potere, non potersi difendere da esso godendo di un potere
eguale si traduce nel sottostare a un potere arbitrario. In questa nuova
concezione del voto è radicata l’idea della designazione elettorale
diretta da parte dei singoli, in quanto non parte di gruppi, ceti o
classi; non perché portatori di specifici interessi da difendere: ecco
l’argomento rivoluzionario dell’idea del suffragio come diritto
individuale nel quale si inserisce il suffragismo. Un movimento che
cominciò proprio insieme all’idea del cittadino come parte uguale della
nazione, sede del popolo sovrano. Ecco perché la decisione che la
Consulta prese nel 1945 approvando l’estensione del diritto di voto ai
cittadini e alle cittadine, “senza distinzione”, fu rivoluzionaria e
coerentemente democratica.