sabato 5 marzo 2016

La Stampa 5.3.16
Caro Violante, il mercato non fa male alla democrazia
di Alberto Mingardi

I mercati finanziari «svuotano» la democrazia? Chi lo sostiene in realtà presume che la democrazia sia quel sistema nel quale non esistono vincoli all’utilizzo politico della spesa pubblica.
Bisogna fare un po’ di pulizia lessicale. Nessuno ha mai visto «i mercati». Il mercato è il luogo, la piazza nella quale qualcuno porta la sua bancarella e qualcun altro ne compra la mercanzia. Diciamo mercato e utilizziamo la parola come metafora dell’atto di scambiare. Scambiare che cosa? In questo caso, titoli di debito.
Una certa classe politica, democraticamente eletta, sceglie di indebitarsi per disporre di denaro che altrimenti dovrebbe togliere forzosamente ai propri elettori attraverso la tassazione. Indebitandosi, spende oggi ma paga domani: ovvero impiega quattrini a vantaggio dei cittadini di oggi (che votano), lasciando il conto da pagare ai cittadini di domani (che ancora non votano).
Per anni, ci è stato detto che si trattava di una specie di partita di giro: un prestito che la collettività fa a se stessa. Quando una certa quota del nostro debito ha cominciato ad essere detenuta da operatori internazionali, ci siamo accorti che le cose non stavano proprio così. Costoro sono ben lieti di prestarci quattrini, ma a fronte di un interesse. Anche gli Stati, esattamente come le persone, possono essere buoni o cattivi debitori. Il debitore cattivo è quello che pare meno in condizione di ripagare il debito: per esempio perché continua a spendere allegramente. È normale che indebitarsi gli costi più caro.
Fa bene dunque Luciano Violante a osservare con un po’ di scetticismo i laudatores temporis actii. Né Parlamento né governo possono però far cadere la manna dal cielo. Ma questa non è una crisi della democrazia: è semplicemente un principio di realtà.
È forse anzi una speranza di rigenerazione della politica. I vincoli di bilancio sono un limite imposto alla libertà di promettere del politico. Se davvero tenessimo il bilancio in pareggio, a ogni nuova spesa dovrebbe corrispondere una nuova entrata (ovvero, più imposte che qualcuno dovrebbe pagare) o un taglio alla spesa attuale. Le scelte collettive sono scelte anch’esse: saremmo costretti a chiederci che società vogliamo, anziché immaginare che tutto possa, in qualche modo, tenersi assieme.
Il cosiddetto «populismo» altro non è, in fondo, che un tentativo di restaurare la totale libertà di promessa. Quella che ci ha portato a un debito pubblico al 136% del Pil. Le soluzioni del populista sono tutte una variazione sul tema del ritorno al Paese di Bengodi: che si tratti di uscire dall’euro o di costruire una muraglia di dazi contro la Cina. Ci allettano con la prospettiva che possano essere altri, a pagare per noi.
Qualche cosa di simile può essere detto circa le difficoltà di reazione della democrazia innanzi a un cambiamento, soprattutto tecnologico, assai più rapido che in passato. Il problema è che ci siamo abituati all’idea che la democrazia, come la spesa pubblica, non conosca confini. Che non ci sia ambito della nostra vita che non possa essere materia di scelta collettiva. Se l’attività legislativa riguarda, semplicemente, tutto, come stupirsi se procede lenta, o se deve essere appaltata a autorità amministrative di varia natura? Ci aspettiamo che il medico faccia bene il suo mestiere, e così l’idraulico, ma non che l’uno sappia armeggiare con gli attrezzi dell’altro. Invece, il decisore politico si proclama onnisciente: ripara tubi e aggiusta ossa, è inverosimile che faccia l’una cosa e l’altra nel migliore dei modi.
È vero, viviamo in un mondo sempre più complesso. Il legislatore fatica a tenerne il passo. Se deve rincorrere ogni nuovo sviluppo, ogni innovazione, è probabile che sarà un generale che combatte sempre la battaglia precedente. Ci sono, per carità, questioni sulle quali la politica non può non pronunciarsi: forse, però, non è proprio il caso di tutta la nostra frenetica e obsolescente produzione legislativa.
E se provassimo a decidere che su certe cose non dobbiamo decidere? Se provassimo, cioè, a recuperare un senso del limite, ad ammettere che ci sono porte che non vanno aperte, che la vita di una società deve procedere, in larga misura, senza che le istituzioni rappresentative s’ingegnino a progettarla?