venerdì 4 marzo 2016

Repubblica 4.3.16
De Cecco, l’economista che amava la Storia
di Marco Panara

Addio allo studioso italiano apprezzato in tutto il mondo. Collaboratore di “Repubblica” dal 1976
Era un economista, ma il suo strumento principale non era la matematica, era la storia. Marcello De Cecco — morto a Roma nella notte di mercoledì, all’età di 77 anni — non credeva nella capacità delle formule di sciogliere la complessità. Considerava la storia, le istituzioni, il flusso degli interessi, fondamentali nel determinare i destini, e il suo metodo era di partire da quelli per capire. Un metodo che gli consentiva non di rado di anticipare gli accadimenti.
Un esempio recente: in un articolo pubblicato da questo giornale il 12 ottobre scorso affermava che la Cina avrebbe utilizzato un possente riarmo per aumentare la domanda interna e rilanciare la sua pericolante economia. Tre settimane dopo arrivò proprio questo annuncio di Pechino. De Cecco non aveva informatori nella Città Proibita, sapeva però leggere gli avvenimenti.
Aveva studiato giurisprudenza a Parma ed economia a Cambridge. Furono quegli anni a formarlo. A Cambridge allora dominavano gli eredi di Keynes, ma ospiti frequenti erano i monetaristi della scuola di Chicago. Grandi discussioni, serate interminabili. Keynesiani contro monetaristi, teorici puri ed economisti matematici da una parte e i pragmatici, quelli attenti ai meccanismi della realtà dall’altra. De Cecco prese questa seconda strada diventando uno dei massimi esperti mondiali del ruolo della moneta, di storia della moneta, del potere che c’è dietro. Il suo Money And Empire: The International Gold Standard 1890- 1914, pubblicato nel 1979, è un classico internazionale.
Ma la sua curiosità ha portato le sue ricerche in molte direzioni. Dalle banche e i sistemi finanziari all’evoluzione dell’asfittico capitalismo italiano, all’evoluzione della borghesia, all’industria pubblica. Conosceva in profondità l’industria dell’acciaio come il sistema bancario tedesco, aveva analizzato il ruolo dei commercialisti nell’impresa familiare italiana e raccontato il passaggio all’euro partendo dal prezzo delle mele esposte in un banchetto di fruttivendolo.
Era nato a Lanciano, in provincia di Chieti, nel 1939. Era onnivoro, leggeva di tutto, aveva una memoria prodigiosa e la capacità di collegare mondi distanti e offrire letture degli eventi tanto affascinanti quanto inattese. Da Lanciano, sempre nel suo cuore, a Cambridge e poi a insegnare nelle università del mondo, da Harvard a Berkeley a Princeton, da Parigi a Berlino. A Hong Kong a studiare le economie dell’Estremo Oriente, alle università di Siena, alla Sapienza, alla Normale di Pisa e in molte altre.
Mai provinciale: non c’è analisi di un fenomeno — diceva — che non richieda una lettura sistemica degli interessi internazionali. E infatti era un maestro nel vedere i condizionamenti alla libertà di azione degli stati. Attraverso questa chiave spiegava, tra le altre cose, la fine della grande industria italiana.
Non era propenso ad assumere incarichi pubblici, che — tranne una parentesi nel consiglio di amministrazione del Monte dei Paschi, quando era ancora solidissimo — non ha avuto mai. Era libero e sanamente scettico. Amava l’Europa ma vedeva senza illusioni tutta la complessità del progetto e non metteva mai a tacere il suo spirito critico.
Aveva scritto il suo primo articolo per Repubblica nel 1976, poche settimane dopo la fondazione del giornale, e ne ha accompagnato il percorso per tutti questi quarant’anni.