venerdì 4 marzo 2016

Repubblica 4.3.16
Nella trappola di Daesh
di Bernardo Valli

IL VIAGGIO è lungo tra Sirte e Sabrata. Prima il litorale fino a Tripoli, poi ancora la strada costiera fino all’antico porto, che fu cartaginese e poi romano. Ci sono anche le scorciatoie nel deserto, ma per muoversi da Sirte, dove si sono incrostati, e raggiungere Sabrata, dove sono stati uccisi Fausto Piano e Salvatore Failla, gli uomini di Daesh (acronimo del nome arabo di Is) devono avere un certo controllo del territorio libico. Non come se fossero in casa propria, ma quasi. La loro disinvoltura comporta dei rischi. Hanno compiuto importanti progressi da quando nell’autunno del 2014, aiutati dagli islamici locali, una corrente di Ansar al Sharia, hanno cominciato la conquista di Sirte per farne il loro principale bastione. La loro “capitale” in Libia, che hanno perduto e poi riconquistato. Adesso controllano almeno duecento chilometri di costa, e il retroterra per una profondità di quaranta chilometri. Ma le operazioni avvengono a un più largo raggio. Fino a Sabrata, ad esempio, che è a ovest, vicino al confine tunisino. Se si guarda una mappa, si vede che la Wilaya (provincia) libica occupata da Daesh, attorno a Sirte, dove è nato ed è stato suppliziato e giustiziato Gheddafi, è a ridosso dei terminali e delle raffinerie da cui parte il quaranta per cento del petrolio esportato.
DA TEMPO, ma con crescente attenzione, il dinamismo di Daesh su larga parte del territorio libico, non lontano dalla costa italiana, è considerato dall’intelligence, dai militari, e dai governi occidentali un’evidente minaccia. Ma anche una trappola. L’uccisione dei nostri connazionali a Sabrata, durante uno scontro tra gli uomini dello Stato islamico e quelli delle tribù locali, è un episodio di sangue che prefigura quel che potrebbe accadere a una spedizione occidentale impigliata, come Piano e Failla, ma su larga scala, nella mischia libica.
Eppure la minaccia c’è, ed è giudicata concreta. Si annunciano con discrezione e si smentiscono sottovoce preparativi a Roma; l’aviazione americana moltiplica le incursioni (una delle più recenti è avvenuta il 19 febbraio sulla zona confinante con la Tunisia, dove sono stati uccisi i due italiani); forze speciali americane,inglesi, francesi compiono rapidi interventi al di là del Mediterraneo. Ed altrettanto starebbero per fare gli italiani. Ma per un’operazione coordinata, tesa a preparare e stabilizzare le forze libiche contro Daesh bisogna aspettare la formazione di un governo di unità nazionale votato dal parlamento di Tobruk, il solo riconosciuto sul piano internazionale.
E tuttavia la nascita di quel legittimo esecutivo tarda a venire. Essa darebbe la benedizione alle incursioni aeree in particolare su Sirte, e consentirebbe l’appoggio alle truppe libiche amiche. Il parlamento di Tobruk, frantumato come il paese da clan e tribù, non riesce però a partorire una maggioranza. Nell’attesa gli occidentali ricorrono a una guerra “segreta”, di cui i soli a non parlare apertamente sono i governi che la fanno.
In realtà di conflitti se ne possono contare tanti in Libia. Ce ne sono di tutte le dimensioni. Sono quelli che creano una trappola infernale. Allo scoppio della guerra civile, nell’ estate del 2014, tre anni dopo la caduta del regime di Gheddafi, il paese si è spaccato in due: da un lato i partigiani e dall’ altro gli avversari di un Islam politico. La frattura era tutt’altro che netta. Non lo è neppure oggi. I clan, le tribù, le clientele moltiplicatesi con l’inurbamento della società e con l’assenza di uno Stato (surrogato da Gheddafi con un regime basato sull’abuso e la repressione) hanno dato il via a una rissa armata che sembra inarrestabile.
In questo mosaico di rivalità sono emerse due coalizioni. In quella di Fajr Libya (Alba della Libia) si sono raccolti i gruppi islamici e i commercianti di Misurata, richiamandosi ai principi del 17 febbraio, giorno dell’inizio dell’insurrezione contro Gheddafi, nel 2011, a Bengasi, capoluogo della Cirenaica. La seconda alleanza ha preso il nome di Karama (Dignità) e riunisce nazionalisti, liberali, tribù un tempo vicine al regime di Gheddafi e non pochi dignitari di quell’epoca. In appoggio di Fajr Libya si sono dichiarati la Turchia e il Qatar. E in favore di Karama l’Egitto e gli Emirati arabi uniti. La divisione è diventata territoriale durante gli scontri armati. A Tobruk, a Est, in Cirenaica, si è installata Karama; e a Tripoli, a Ovest, e in quasi tutta la Tripolitania, Fajr Libya.
Il governo votato dal Parlamento di Tobruk, e riconosciuto da Tripoli, dovrebbe essere di unione nazionale. Gli interminabili, tormentati negoziati hanno condotto a questa formula magica: l’ unione nazionale significherebbe infatti la fine del conflitto tra le due grandi alleanze e consentirebbe la richiesta di un intervento straniero. Per ora considerato un’invasione nemica da combattere sia da Tripoli sia da Tobruk. Senza la maggioranza che tarda a formarsi in Parlamento, l’approdo sulle spiagge libiche di truppe occidentali equivarrebbe a cadere in una trappola. Gli innumerevoli gruppi armati, non controllati ma spesso manovrabili dalle due grandi alleanze riconciliate, potrebbero attaccare gli stranieri invasori. E alimentare l’ostilità della popolazione.
La guerra “segreta” evita questi pericoli nell’attesa che a Tobruk si formi un governo e un fronte comune contro Daesh. Il quale nel frattempo da Sirte si espande nel resto del paese, imponendo le sue leggi e crocifiggendo chi non le accetta. Come accade nella città “liberata”.
Di fronte alla minaccia di Daesh e al rischio di una trappola l’intelligence, i militari, i politici sembrano a corto di idee. La perplessità è giustificata. Si tratta di ristrutturare un paese. Di creare uno Stato. C’è persino, in Occidente, chi rimpiange Gheddafi. Lui controllava il paese. Per la verità gran parte della popolazione non sopportava più le sue follie. Ed è insorta. L’errore non fu di contribuire alla sua fine, di fermare la repressione, ma di non preparare la transizione. Di bombardare e di andarsene. Cinque anni dopo il problema si ripropone. In forma più grave. E con un più profondo esame di coscienza. Dopo l’Iraq e la Siria.