giovedì 3 marzo 2016

Repubblica 3.3.16
Delusa e impoverita l’America nascosta fa volare Trump
Migliaia di persone che non avevano mai votato portano al trionfo il più radicale dei repubblicani
di Federico Rampini

HOUSTON. La “rivoluzione Trump” sta portando alle urne l’America che non votava. Cittadini che non hanno mai creduto nella politica, non si sono mai sentiti rappresentati, sono accorsi in massa alle primarie del Supermartedì, esaltati da uno showman che gli promette «Vi farò grandi di nuovo».
Trump è da ieri il favoritissimo fra i repubblicani, i numeri indicano una finale a novembre tra lui e Hillary Clinton, che a sinistra è riuscita a contenere la sfida radicale di Bernie Sanders. Martedì sia Trump che la Clinton hanno conquistato 7 Stati su 11, tutti e due hanno circa un quarto dei delegati necessari per la nomination, e soprattutto hanno reso molto improbabile la vittoria di qualcun altro.
Ma la Clinton era favorita dall’estate scorsa e il “rivoluzionario” Sanders l’ha messa in difficoltà solo in alcune aree del paese. Il ciclone Trump è tutt’altra cosa: sconvolge la politica americana, ha sbalordito tutti gli esperti. E’ sopravvissuto anche all’ultima settimana di attacchi forsennati: lo hanno accusato di truffa e frode, evasione fiscale, connivenza col Ku Klux Klan, sfruttamento illegale di immigrati clandestini. Spesso accuse fondate. Ma l’America di Trump ha smesso di ascoltare: non si fida dei politici, dei media, delle élite. Si sgolano gli avversari a definirlo «un magnate che ha sempre disprezzato la gente comune» (Marco Rubio), «un affarista che intrallazza coi politici, blasfemo e volgare» (Ted Cruz), finora gli attacchi non bucano il muro della nuova America che ha scoperto il suo eroe. In alcuni Stati l’affluenza alle primarie repubblicane ha raggiunto il triplo del passato, un boom di votanti che nessuno aveva visto arrivare. Lui sa che questa è la sua arma più forte, lo dice chiaro ai notabili della destra: «Io sto allargando la dimensione del partito repubblicano».
In epoca moderna solo a Ronald Reagan riuscì un’operazione simile, anni Ottanta. L’establishment però si era convertito a Reagan mentre ancora resiste a Trump. Un gruppo di miliardari finanziatori della destra ha unito le forze e da ieri lancia una poderosa campagna anti-Trump, spot televisivi per demolirlo. Ma il tempo stringe, il calendario è implacabile: se conquisterà anche la Florida il 15 marzo, sconfiggerlo sarà quasi impossibile.
Questo spiega l’apparente mistero dei tre rivali che non si ritirano (solo Ben Carson ha gettato la spugna) e disperdono il voto anti-Trump malgrado le multiple sconfitte. A parte Ted Cruz che ha vinto 4 Stati gli altri sono quasi a secco. Ma hanno un piano B: non s’illudono di vincere, sperano di fermare Trump sotto la soglia del 50,1%.
Se le primarie finiscono senza che lui abbia la maggioranza assoluta, a luglio si terrà una convention “aperta”, dove a partire dalla seconda votazione i delegati non saranno più vincolati dal mandato degli elettori. Dunque una convention di scambi e compromessi, patti fra candidati, ribaltoni, con la mediazione dei vertici del partito. E’ uno scenario estremo, da ultima spiaggia, e la dice lunga sul terremoto Trump.
Lui cerca di rassicurare l’establishment: «Sono capace di unificare il partito e la nazione », ha lanciato la sera del Supermartedì. La sua conferenza era “presidenziale”: dieci bandiere a stelle e strisce dietro il palco, più che alla Casa Bianca per Barack Obama. A fianco a lui il governatore del New Jersey, Chris Christie, un pezzo di establishment già salito sul carro del vincitore: un altro messaggio subliminale, è aperta la campagna acquisti.
Chi c’è nel popolo di Trump? Le analisi demografiche sono più precise via via che avanzano le primarie. Tra i suoi elettori prevalgono maschi, bianchi, con scarsi titoli di studio, reddito medio-basso. Soprattutto li accomuna un dato culturale: il senso di esclusione, di risentimento, d’ingiustizia. Ce l’hanno coi neri o con gli immigrati perché li vedono come parassiti del Welfare che tolgono risorse alle loro pensioni e alla loro sanità. Ce l’hanno con l’1% dei privilegiati che li fregano, coi banchieri di Wall Street, coi capitalisti che delocalizzano in Cina, coi politici venduti alle lobby.
Trump ha imparato a parlare a chi ha la quinta elementare. Ha coltivato il razzismo da quando lanciò la campagna contro “Obama nato in Kenya” nel 2012. Ha sperimentato in tv col suo reality show The Apprentice come vendere sogni di grandezza e di arricchimento, se si obbedisce a un capo forte. Ha sdoganato l’insulto, la volgarità, l’allusione sessista, in una rivolta viscerale contro il “politically correct”.
Hillary Clinton ora teme seriamente la sua aggressività e ancor più la sua vitalità: le primarie democratiche stanno scivolando verso la routine, con tassi di affluenza inferiori al 2008. Sulla partecipazione alle urne si gioca tutto. Se Clinton oltre a parlare il linguaggio della ragione non suscita un “movimento”, l’America più frustrata e rabbiosa porterà alla Casa Bianca l’impensabile.