Repubblica 31.3.16
La difesa del crocifisso non aiuta l’inclusione
di Tomaso Montanari
DA
cristiano, prima ancora che da cittadino, sono stato profondamente
colpito da un passaggio dell’incalzante meditazione con cui papa
Francesco ha chiuso la Via Crucis del Venerdì Santo. Con una scelta
davvero molto forte, il pontefice ha incluso tra i peccati devastanti di
un’umanità che torna a crocifiggere Cristo (stragi, terrorismo, vendita
di armi, pedofilia, corruzione, distruzione dell’ambiente...) anche
un’opinione: «O Croce di Cristo – ha detto Francesco – ti vediamo ancora
oggi in coloro che vogliono toglierti dai luoghi pubblici ed escluderti
dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista, o
addirittura in nome dell’uguaglianza che tu stesso ci hai insegnato ».
Se
non è mai facile, per un cristiano, dissentire dal papa, lo è ancora di
meno di fronte a questo papa: così evidentemente profetico, ed
evangelico. D’altra parte, è difficile non interrogarsi sulle
conseguenze di questa fortissima – per quanto implicita – riaffermazione
della necessità di una società cristiana, e addirittura di uno Stato
cristiano.
Perché, naturalmente, la presenza del crocifisso nelle
aule pubbliche italiane è regolata dallo Stato, per legge. Per le scuole
essa fu prescritta dalla legge Casati (promulgata nel Regno di Sardegna
nel 1859, e poi estesa all’Italia unita), e poi fu duramente ribadita
(a colpi di circolari, decreti e ordinanze) durante il fascismo. Dopo
che la revisione del Concordato del 1984 aveva esplicitamente recepito
la svolta costituzionale per cui il cattolicesimo non è più religione di
Stato, è sorto un forte dibattito pubblico (ripercorribile in Sergio
Luzzatto, Il crocifisso di Stato, Einaudi 2011) sull’opportunità di
rimuovere i crocifissi dalle aule statali. I vari tentativi di
intraprendere, a questo fine, la via giudiziaria si sono fermati di
fronte a una sentenza della Corte di Strasburgo del marzo 2011, che –
ribaltando una sua altra sentenza – ha stabilito che il crocifisso non
è, in Italia, un simbolo religioso attivo, ma un elemento culturale e
identitario “passivo”, e come tale incapace di agire sulla coscienza
degli alunni. Mentre, in Italia, la Conferenza episcopale esultava, il
rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, osservò che «dire che il
crocifisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto».
Da cristiano formatosi sui testi di don Lorenzo Milani – che tolse il
crocifisso dall’aula della sua scuola – mi trovai perfettamente
d’accordo con quel giudizio: perché profondamente convinto della non
passività del crocifisso.
Da cittadino dell’Europa dilaniata dalle
bombe di Parigi e Bruxelles mi chiedo oggi se non abbiamo nuove ragioni
per essere in disaccordo con quella sentenza – e con il papa.
Combattiamo la mostruosità di un sedicente Stato Islamico: dove ad
essere mostruosa è la pretesa di essere uno Stato, ma anche quella di
essere islamico. Ed è l’unione delle due cose, cioè la mescolanza tra
Stato e religione, a ripugnarci profondamente. Non è forse questo un
buon motivo per essere più radicalmente fedeli alle nostre convinzioni,
quelle su cui si basa questa ripugnanza? Non è forse il momento in cui i
cristiani d’occidente ribadiscano con forza che la laicità dello Stato,
la neutralità religiosa dello spazio pubblico e un rispetto
incondizionato per le minoranze religiose non sono altrettante “paganità
laiciste”, ma valori non sradicabili dalla nostra identità di
cittadini? Lungi dall’essere un cedimento, una simile scelta sarebbe la
più ferma delle risposte: non accettiamo il ruolo dei crociati. Da
cristiano credo che Gesù ci abbia insegnato l’uguaglianza più radicale.
Ma da cittadino italiano credo nell’articolo 3 della Costituzione, che
ci invita a rimuovere gli ostacoli che impediscono un’uguaglianza
sostanziale. E credo che, facendo questa distinzione, si obbedisca anche
al precetto evangelico che obbliga «a dare a Cesare, quel che è di
Cesare». Come scriveva Mario Gozzini nel 1988, “la fede cristiana non ha
bisogno di orpelli statali per essere testimoniata come fermento che
rende più umano il tessuto sociale”.
Naturalmente questo non
significa affatto ridurre la fede ad una dimensione privata: «Che la
religione nelle società democratiche e laiche debba avere una rilevanza
pubblica, per me è del tutto pacifico» (così Luigi Manconi nel suo
recentissimo, e bellissimo, Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare
politica, Minimum fax 2016). Ma la rilevanza pubblica è ben altra cosa
dall’imposizione attraverso le leggi dello Stato: ed è precisamente in
questo che i criteri e i valori in cui ci riconosciamo sono diversi da
quelli di chi sta seminando la morte nelle strade dell’Europa.
Nelle
classi dei miei figli (scuola primaria pubblica, centro di Firenze) ci
sono diversi bambini musulmani: che non hanno una moschea in cui pregare
(finora il Comune e la Curia hanno remato contro), ma ogni mattina
trovano un crocifisso nella loro aula scolastica. Se vogliamo lavorare
all’Italia in cui questi bambini saranno tutti egualmente cittadini,
dobbiamo lasciarci alle spalle il retaggio non certo del cristianesimo,
ma della legge Casati. Il modo più carico di futuro per reagire al
terrore è costruire una società più inclusiva: una comunità civile che
sappia essere davvero di tutti. Un’Italia in cui chi è arrivato
all’ultima ora abbia gli stessi diritti di chi c’è fin dall’inizio: come
dice la Costituzione (e come dice il Vangelo).