giovedì 31 marzo 2016

Corriere 31.3.16
Tolleranza non è ridurre le libertà delle donne
di Michela Marzano

P are che George Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe richiesto loro di adempiere il servizio militare, avesse detto che gli «scrupoli di coscienza di tutti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande cura e gentilezza». E che quindi, in nome della tolleranza, si sarebbe dovuta «accomodare» persino la legge. Ma fino a che punto si possono «accomodare» alcuni diritti? È giusto arretrare anche solo sulle proprie abitudini? È ammissibile, per le donne, rinunciare a quelle libertà conquistate da poco e con tanta fatica, come è accaduto recentemente ad Amsterdam dove sono stati vietati minigonne e stivali sexy negli uffici comunali per non urtare la sensibilità di una clientela multietnica? Si può, per dirla in altri termini, tollerare l’intolleranza altrui senza rischiare di cancellare la possibilità stessa della tolleranza?
La tolleranza, come ci insegnano Locke o Voltaire, non è solo quella virtù che porta a rispettare l’altro e le sue differenze. È anche e soprattutto ciò che permette di organizzare il vivere-insieme quando si hanno opinioni morali, politiche e religiose diverse, spingendoci a sopportare anche ciò che si disapprova. In che senso? Nel senso che quegli «scrupoli di coscienza» di cui parlava Washington non dovrebbero impedire alle donne di vestirsi come vogliono o agli umoristi di ironizzare o far ridere su qualunque cosa. Esattamente come non dovrebbero impedire, a chi lo desidera, di augurare ad amici e a parenti «Buon Natale» o «Buona Pasqua», solo perché il Natale o la Pasqua sono festività cristiane. Ecco perché in ogni democrazia liberale e pluralista, pur non sopportando il fatto che una donna si veli, si dovrebbe essere capaci di accettarlo; esattamente come si dovrebbe accettare il fatto che alcune donne mettano la minigonna o vadano in giro con abiti sexy, anche quando la cosa infastidisce. A meno di non voler distruggere proprio la tolleranza, visto che «tolleranza» e «intolleranza» non fanno altro che elidersi reciprocamente. Se in nome della tolleranza si tollerasse l’intolleranza si finirebbe d’altronde con lo svuotare di senso il concetto stesso di tolleranza.
È questo che vogliamo? Siamo sicuri che è il modo migliore per promuovere l’integrazione nei nostri Paesi? Non rischiamo così di aumentare la conflittualità e, nel nome della convivenza, di rinunciare a valori e ideali per i quali si sono battute generazioni intere di uomini e di donne?
L’integrazione non è mai facile. Non lo è per nessuno. Non lo è stato per gli Italiani, i Polacchi, gli Spagnoli e i Portoghesi che sono emigrati il secolo scorso. Lo è ancora meno per chi viene da una cultura o da una religione completamente diversa come l’Islam. In ogni caso, si è confrontati all’alterità. E l’alterità, per definizione, è difficilmente assimilabile. Anche perché l’altro, in quanto tale, è il contrario dell’identico, e quindi di tutto ciò che si conosce e che si è intuitivamente disposti ad accettare. Ci si può integrare, come spiega il filosofo Alasdair MacIntyre, solo a partire dalle proprie molteplici «appartenenze» (famiglia, quartiere, tradizioni, chiese…). «E la particolarità», scrive MacIntyre, «non può mai essere semplicemente lasciata alle spalle o cancellata rifugiandosi in un mondo di massime universali». Al tempo stesso, però, ci sono diritti, o anche solo abitudini, su cui sarebbe un grave errore arretrare vuoi per paura, vuoi per rispetto. Soprattutto quando si pensa a quei territori di libertà femminili che si sono conquistate pian piano, con sofferenze e sacrifici. Perché poi è sempre così che finisce: sono le donne — ma anche le persone omosessuali e transessuali — che rischiano di pagare sulla propria pelle il prezzo di quest’accomodarsi per paura di ferire la sensibilità altrui. Come si può anche solo pensare di vietare le minigonne o di coprire delle statue nude — come è accaduto in Italia in occasione della visita del presidente dell’Iran — solo perché il nudo potrebbe imbarazzare chi non si imbarazza affatto quando, a casa sua, si tratta di imporre i propri usi e costumi? Come si può anche solo immaginare di tollerare l’intolleranza di chi è convinto che un uomo non debba nemmeno sognarsi di stringere la mano di una donna?
Oswald Spengler, ne Il Tramonto dell’Occidente , spiegava che il mondo si fa, si disfa e si rifà, indipendentemente da quello che possiamo fare o volere. Con queste parole, il filosofo tedesco anticipava profeticamente la fine della «Modernità». Al tempo stesso, però, affermava qualcosa di profondamente erroneo. Almeno per chi parte dal presupposto che, nonostante ci sia sempre qualcosa che sfugga al controllo, gli esseri umani sono comunque responsabili del proprio destino. E crede quindi che ci si debba sempre battere per salvaguardare i propri diritti ed evitare di arretrare. Tanto più che, oggi, sono numerosi coloro che vorrebbero cancellare anni di storia e di battaglie femminili.
Gli integralismi, quando si tratta delle donne, si assomigliano tutti. E con la scusa di difendere valori come la famiglia, l’onore, il pudore o la castità, vogliono di fatto tornare a quell’epoca in cui le donne, docili e silenziose per natura, dovevano accontentarsi di restare a casa, lasciando agli uomini gli oneri e gli onori della vita pubblica. Il diavolo si nasconde spesso nei dettagli: una minigonna vietata o un velo imposto, un «vergognati» o un «resta al posto tuo», un «era meglio prima» o un «questo è puro e questo è impuro». Tanti dettagli che, col tempo, rischiano però di diventare pericolosi. Soprattutto quando, nel nome della tolleranza e del rispetto, di fatto si impongono solo intolleranza e umiliazione. Ma come si può, nel nome della tolleranza, tollerare appunto l’intolleranza?