Repubblica 31.3.16
Il corpo come prova del male assoluto
di Melania Mazzucco
SE
io non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e se non metto il mio
dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato,
io non crederò. Così, secondo Giovanni, dice ai suoi compagni Tommaso,
detto Didimo. E il segno dei chiodi sembra essere ancora oggi l’ultima,
ed estrema prova di un delitto — l’esercizio compiuto del “male del
mondo”, come ha detto nella conferenza stampa di martedì la signora
Regeni. La vittima, che non può più parlare, né difendersi, per ottenere
ascolto è costretta a tornare fra noi come corpo, e volto, offeso,
straziato, sanguinante.
SEGUE A PAGINA 29
IL CORPO del
nemico ucciso — mutilato, decapitato, impiccato, bruciato — lo espongono
(per sfregio, per volontà di potenza, per intimidire e terrorizzare,
per delirio di impunità) i suoi assassini, e lo rilanciano i mass media,
che alternano, a seconda della convenienza e della posizione assunta
nel conflitto, la pedagogia dell’orrore alla rimozione visuale della
morte. Per un rovesciamento simmetrico, il corpo dell’amico ucciso lo
espongono non i carnefici ma gli alleati. Le immagini dei martiri le
mostravano i devoti, i cadaveri saponati degli ebrei sterminati nei
campi di concentramento i cameramen al seguito degli eserciti
liberatori. Per ragioni opposte: come testimonianza al di là di ogni
ragionevole dubbio, contro ogni negazionismo e ogni futuro silenzio,
come prova definitiva e indiscutibile che questo male è stato commesso,
che tutto ciò è davvero accaduto. E l’ostensione dei corpi, ma per lo
più dei volti, delle vittime non di guerra, o di guerre non
convenzionali — laica, e però intrisa di una sacralità purissima — tocca
atrocemente alle persone che più le hanno amate: madri, sorelle, padri.
Essi soli ne conoscono davvero il prezzo, e hanno il diritto di
gridarci, mostrando i figli e i fratelli distrutti, il loro ecce homo.
Da
secoli ci si interroga sulla liceità della rappresentazione del dolore
dell’altro, degli altri. Posti davanti alla scelta di mostrare o non
mostrare “ il segno dei chiodi”, anche gli artisti hanno esitato.
Qualcuno, come Grünewald ( o, in tempi più vicini, l’espressionista
Corinth), ha dipinto la sofferenza del corpo, lo strazio fisico, la
morte brutta e infame.
Gli italiani preferivano idealizzare,
alludere: un rivolo di sangue, l’impercettibile contrazione di un
muscolo, il pallore livido della carne. Perfino negli scorticamenti e
nelle amputazioni barocche gli strumenti di tortura sono più realistici
delle ferite, e gli occhi dei martiri si levano al cielo, beati e senza
lacrime. Si credeva che per suscitare commozione non sarebbe servito
altro. Ma commuovere non significa far piangere: significa muovere
l’animo. Indurre ad agire, strapparsi all’inerzia, trovare coraggio, e
scegliere. Una immagine, una fotografia, può ancora farlo.
Paradossalmente, in un’epoca in cui ogni gesto, anche il più
insignificante della persona più insignificante, è immortalato da uno
scatto, e offerto alla condivisione della folla anonima, la fotografia
non solo non ha perso il suo potere, ma lo ha amplificato. Se le
fotografie — come scriveva già nel 1973 Susan Sontag — « non possono
creare una posizione morale, possono rafforzarla». Per questo, nella
nostra contemporanea debolezza di posizione morale, l’immagine
indelebile delle vittime — delle nostre vittime, i nostri amici uccisi —
assume una travolgente forza etica, e si è rivelata così spesso
necessaria.
La madre di Giulio Regeni ha detto che forse dovrà
mostrare a tutti il volto devastato e irriconoscibile del figlio.
Tuttavia, come lei, come quelli che lo hanno conosciuto e amato, io
spero che non sarà necessario, stavolta, e di poter ricordare di Giulio
Regeni il sorriso maturo, il volto giovane e felice. Perché questo era —
ed è — un uomo.