giovedì 31 marzo 2016

La Stampa 31.3.16
“Il regime non fa differenza fra realtà e menzogne”
Lo scrittore Al-Aswany: con Al Sisi la repressione è più dura che sotto il governo di Mubarak
di Francesca Paci

Alaa Al-Aswany ne ha sentite di bugie di regime. Nato nel 1957 nella Cairo di Nasser, il più noto scrittore egiziano contemporaneo ha contrastato tutti i presidenti, Sadat, Mubarak, Morsi, Sisi. Perfino nei mesi successivi alla da lui sostenutissima rivoluzione del 2011 rifiutò il posto di ministro della cultura per seguitare a esercitare «il diritto di critica al potere». Oggi, però, la gestione a botte di depistaggi del caso Regeni gli sembra paradossalmente un segno di debolezza del sistema, forse addirittura il colpo di coda di un governo a cui «neppure gli egiziani meno sofisticati credono più».
Ora saltano fuori i trafficanti di reperti. Prima c’erano stati l’incidente d’auto, la pista omosessuale, la droga, lo spionaggio, i sequestratori di turisti: tutti scenari regolarmente smentiti. Quale dinamica partorisce queste bugie?
«Prendiamo la storia dello spionaggio. A parte che non l’ho mai creduta perché avevo conosciuto Giulio Regeni nel mio vecchio studio a Garden City, dove era venuto per farmi un’intervista e avevamo parlato a lungo di socialismo. Il punto è che il meccanismo di partenza è roba da XIX secolo. Sotto la pressione della sicurezza i media egiziani stanno promuovendo paranoia e xenofobia, anche uno come me che vende bene i suoi libri in Occidente solleva domande. Chi ci sarà dietro ad Al-Aswany? Una volta costruito questo stato della mente non c’è più argine tra bugia e verità, come nelle teorie cospirative che infatti sono tanto in voga in Egitto».
Descrive una specie di cultura della menzogna. A che pro in un’epoca in cui le informazioni circolano aggirando i filtri?
«Nei regimi non democratici la gente non ha modo di esprimersi realmente se non in qualche caso sul web e il governo non deve preoccuparsi di fornire narrative credibili perché non esiste feedback, qualsiasi storia è buona. Solo nelle democrazie il pensiero dei cittadini ha un valore perché si traduce in giudizio e consenso politico. Oggi in Egitto i social network sono l’unico spazio libero, lo specchio dell’opinione pubblica. La storia della presunta gang responsabile della morte di Regeni ha sollevato al Cairo le stesse domande italiane, non l’ha creduta nessuno e alla fine il ministero dell’Interno ha dovuto smentire i media a cui pure era stata fornita quella versione...».
Vuol dire che non c’è differenza fra verità e menzogna?
«Nei regimi non democratici no. Ma il governo egiziano non ha capito quanto il popolo sia cambiato cinque anni fa, è nato uno spirito critico. O forse lo ha capito e per questo la repressione si è fatta più dura: oggi la libertà di espressione è messa assai peggio che sotto Mubarak perché abbiamo il vecchio regime in una variante nuova, basta dissentire per essere puniti. Storicamente quando ci sono rivoluzioni che non riescono a spazzare via i regimi è sempre così, la restaurazione assume la ferocia di una tigre ferita».
Nel 2010 fece il giro del mondo la foto «ritoccata» del quotidiano «al Ahram» in cui l’allora presidente Mubarak era stato spostato davanti a Obama e Netanyahu. Qual è l’intento di contraffare la realtà in modo così facilmente obiettabile?
«Nel 2010 gli egiziani cominciavano già ad obiettare. Ricordate Khaled Said, l’attivista torturato a morte ma ufficialmente associato a una storiaccia di droga? Divenne l’icona della rivoluzione del 2011. Oggi nessuno crede più al governo egiziano che inventa di tutto contando sull’inconfutabilità del proprio potere. Ma fino a quando? In assenza di prove non posso accusare nessuno degli apparati governativi per la morte di Regeni ma dico con un certo agio che la loro performance è stata pessima. Avrebbero dovuto adoperarsi per far luce anche a costo di una verità scomoda perché rinviare sta rendendo tutto più complicato e gravido di pessime conseguenze».
Sapremo mai cosa è accaduto davvero a Giulio Regeni?
«Sono ottimista e credo di sì, arriveremo alla verità per Regeni, per tutti gli egiziani che subiscono la stessa sorte e per i miei compagni in carcere senza capo d’accusa, i valori e la democrazia finiranno per trionfare senza compromessi anche in Egitto, dove il 60% della popolazione è under 40 e tra vent’anni avrà surclassato i vecchi arnesi. Il mio ultimo libro, «Cairo Automobile Club» (Feltrinelli, ndr), è una dichiarazione d’amore al futuro: racconto gli Anni 40 per dire che anche allora con l’aristocrazia in grande spolvero la domanda di dignità era la stessa di oggi. I dittatori pretendano che il popolo creda alla loro narrativa perché lo ingabbiano nell’antinomia sicurezza più cibo o libertà più castigo: fuori dalla gabbia le bugie hanno le gambe corte».