Repubblica 2.3.16
Il rebus del Faraone
di Gianluca Di Feo
L’Egitto
ignora le richieste italiane Dopo trenta giorni dal ritrovamento del
corpo di Regeni non è stato trasmesso un solo documento
IL CORPO
martoriato di Giulio Regeni sta obbligando l’Italia ad aprire gli occhi
sui metodi di Al-Sisi, il generale che guida l’Egitto con i poteri
assoluti di un faraone. I depistaggi di Stato sull’uccisione del giovane
ricercatore fanno venire alla luce una situazione cupa e complessa,
intrecciata con le partite diplomatiche più calde di tutto il
Mediterraneo. La Libia, anzitutto, dove Al-Sisi finora si era sempre
mosso in sintonia con le linee della Farnesina nel sostegno del governo
unitario promosso dalle Nazioni Unite: un disegno che adesso sta venendo
soffocato dal manifesto ostracismo del Parlamento di Tobruk e dalle
iniziative militari del generale Haftar, entrambi fortemente
sponsorizzati dal Cairo. Non solo. Le notizie sulla presenza di
commandos francesi al fianco dell’armata di Haftar e le indiscrezioni su
un’imminente esercitazione della portaerei De Gaulle nelle acque
egiziane sembrano mostrare un cambiamento di rotta, sulla scia di nuove
relazioni intessute con Parigi.
Eppure l’Italia ha fatto
moltissimo per l’Egitto. E questo ha trasmesso la convinzione che le
proteste possano venire ignorate e che a Roma non ci sia la volontà di
mettere in discussione rapporti antichi per la morte di un ragazzo.
Tanto più che l’Eni ha appena scoperto al largo di Alessandria il
giacimento più ricco del Mediterraneo, un affare potenzialmente da 850
miliardi di metri cubi di gas naturale: la prospettiva di un benessere
condiviso per entrambi i Paesi. Così da un mese le autorità egiziane
stanno ignorando le richieste. Anche ieri il ministro Gentiloni ha
ribadito: «Ci aspettiamo la piena collaborazione che è stata promessa».
Ma dopo trenta giorni dal ritrovamento del corpo non è stato trasmesso
un solo documento agli investigatori italiani. E molte prove — come
analizza l’inchiesta di Carlo Bonini — sono state cancellate. Il punto
però è capire se la scommessa del Cairo si rivelerà un azzardo. Perché
la pretesa di verità sulla morte di Giulio Regeni non diminuisce, anzi
cresce ogni giorno, con un moltiplicarsi di iniziative in tutto
l’Occidente. E l’incapacità di fornire spiegazioni credibili sul
sequestro, la tortura e l’uccisione di uno studente si sta trasformando
nel più importante atto d’accusa mai formulato contro il regime di
Al-Sisi, mettendo a nudo la ferocia di una repressione che da due anni
colpisce tutto il suo popolo.
Può il Faraone correre questo
rischio? O forse l’assassinio è anche una sfida lanciata dall’interno al
suo stesso dominio e, in maniera più o meno indiretta, ai rapporti con
l’Italia? Ancora una volta, sono le informazioni diffuse dalla Reuters a
far intuire uno scontro sotterraneo di potere al Cairo. Notizie
raccapriccianti, perché la cronologia dell’autopsia condotta dalla
procura di Giza rivela che mentre il ministro dell’Interno Maghdi Abdel
Ghaffar si rifiutava di incontrare l’ambasciatore Maurizio Massari,
Giulio Regeni era ancora vivo e veniva lentamente seviziato da
professionisti della tortura: maestri del terrore con protezioni così
profonde da frenare lo stesso presidente. Che tra il sostegno agli
apparati della brutalità e le proteste di Roma, finora non ha avuto
dubbi su quale obiettivo perseguire.
Le faide di palazzo sono un
problema del Cairo. Mentre la questione che riguarda gli italiani è
tutta nelle parole pronunciate ieri dal ministro Gentiloni: «Sia la
famiglia Regeni che la dignità del nostro Paese richiedono che su questa
vicenda si abbiamo elementi certi e seri». E anche rapidi.