Repubblica 2.3.15
Tutti pazzi per Delfi, il ritorno degli oracoli
Da
Eleusi a Dioniso, da Orfeo alla Sfinge in libreria è boom di saggi che
indagano religioni e culti iniziatici dell’antica Grecia. E che parlano
soprattutto di noi
di Silvia Ronchey
Quando san
Paolo, nel tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi, parla
dell’iniziazione ai misteri cristiani, descrive così la condizione
umana: «Ora vediamo attraverso lo specchio di un enigma», “per speculum
in aenigmate”. «Poi, vedremo faccia a faccia». Lewis Carroll usò
l’espressione «attraverso lo specchio» (Through the Looking Glass) come
titolo
del secondo volume di Alice nel paese delle meraviglie, che
è un trattato sui misteri dell’antichità (quelli eleusini per esempio:
pensiamo al neonato che si trasforma in maiale nella cucina della
Duchessa), anche se viene considerato un libro “per piccoli”. Come del
resto altri libri simili della seconda metà dell’Ottocento, tra cui il
Pinocchio di Collodi, a sua volta ispirato da una precedente narrazione
dall’apparenza fiabesca, in realtà iniziatica, le Metamorfosi di
Apuleio.
Non è un caso. “Piccolo” era nel mondo ellenico il nome
in codice del “non iniziato”, di chi attendeva l’iniziazione: «Quando
ero piccolo ( parvulus) parlavo da piccolo, conoscevo da piccolo,
ragionavo da piccolo. Ma ora che sono adulto ( vir), ciò che era da
piccoli l’ho eliminato ». Anche la parola “enigma”, che compare subito
dopo, è una parola spia. Era “per enigmi” che la parte più profonda e
più mistica, “misterica” appunto, della religione greca veniva
comunicata a chi attendeva l’iniziazione.
Per enigmi parlava la
Pizia a Delfi. Il santuario di Apollo, attivo almeno fin dall’VIII
secolo a.C., come spiega Michael Scott ( Delfi. Il centro del mondo
antico, Laterza, pagg. 368, euro 25), era l’omphalos, il cordone
ombelicale attraverso cui il profondo viaggio mistico della religione
ellenica teneva collegato il solare mondo greco all’oscuro grembo della
tradizione misterica ancestrale.
Physis kryptesthai philei, «la
natura ama nascondersi», ammoniva Eraclito; e aggiungeva: «L’oracolo non
dice né nasconde: dà segni» ( semainei), come riferisce nel De Pythiae
oraculis Plutarco.
«Guarda, ritornano, uno per uno, / con passo
incerto, solo a metà svegli», scriveva Ezra Pound in quella magnifica
poesia intitolata Ritorno. Oggi gli dèi della Grecia ritornano in un
corteo di libri sui culti e i misteri del loro antico regno. Oggi, nel
revival della storia delle religioni, ritorna l’interesse per il
paganesimo mistico e profondo, come nel vecchio Rinascimento, ora anche
nel nuovo.
Se il solare Apollo suggeriva la sua conoscenza
attraverso un tenebroso intreccio di parole, da districare a costo della
stessa vita, anche Gesù nel Vangelo — spiega Maurizio Bettini ( Il
grande racconto dei miti classici, Il Mulino, pagg. 503, euro 48) —
formula enigmi quando recita le sue parabole. Come quella del
seminatore, che i discepoli non comprendono: «Se non capite il
significato di questa parabola, come farete a capire tutte le altre?»,
li rimprovera Gesù. «Il seminatore semina la parola»: solo una piccola
parte del seme non muore. Lo sapeva André Gide.
È la risoluzione
dell’enigma per eccellenza, quello della Sfinge, creato da un uomo,
rivolto a un altro uomo, che ha per soluzione l’uomo — Simone Beta, Il
labirinto della parola. Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica
(Einaudi, pagg. 347, euro 32) — a gettare Edipo nella condizione
esistenziale ancora più fittamente misterica che lo rende il
protagonista del mito greco più famoso al giorno d’oggi, l’alias di
ciascuno di noi, la maschera primaria del gran teatro del mito su cui si
proietta il mistero universale dell’inconscio.
«Conosci te
stesso», recitava la scritta sul frontone del tempio di Delfi, e per
quante interpretazioni ne siano state date, da Platone all’Oracolo di
Matrix, quasi nessuno ha in seguito dubitato che il mistero del mondo
giaccia nel profondo dell’io, in sotterranei della coscienza simili
all’adyton dov’era conservata, sotto la pavimentazione marmorea del
tempio, la sacra pietra che indicava il centro del mondo.
Plutarco,
sacerdote delfico, forse il più grande conoscitore della religione
ellenica, in un altro dei suoi dialoghi pitici fa discutere gli
interlocutori sul significato dell’altrettanto famosa e di Delfi,
«offerta sacra al dio» inscritta tra le colonne frontali del tempio. Le
interpretazioni dei dialoganti sono ancora più misteriose, forse, della
scritta. La più amabile è quella di Nicandro, secondo cui sta per
ei, la particella interrogativa “se”.
Come
testimoniato da Petronio e ricordato da Eliot in exergo alla Terra
desolata, la Sibilla cumana, alla domanda «Cosa vuoi?», rispondeva:
«Voglio morire ». La “morte al mondo”, stato di trance per la
sacerdotessa, era anche condizione perché il fedele potesse fruire
dell’insegnamento segreto dell’oracolo: «L’anima è nell’ignoranza tranne
quando si trova nel processo di morte. Perciò anche il verbo “morire” e
il verbo “essere iniziato” si somigliano», recita un frammento di
Plutarco sui Grandi Misteri eleusini.
Morte e vita unite insieme
in una sola esperienza iniziatica, l’epopteia, in cui l’immortalità
coincide con l’espansione della coscienza che muore al principio
d’individuazione: è il segreto, o almeno uno dei segreti,
dell’iniziazione più impenetrabile del mondo antico, quella di Eleusi,
dove la morte non è peraltro solo condizione metaforica di uscita
dall’io, ma è anche attuata materialmente nel sacrificio umano che
occhieggia dalla sterminata profusione di inquietanti quanto reticenti
testimonianze pagane e cristiane (ora integralmente raccolte
nell’antologia Eleusis e Orfismo. I Misteri e la tradizione iniziatica
greca, a cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, pagg. 639, euro 14) su
«quelle peripezie terribili, brividi, tremori, sudore e sbigottimento »
che nell’immenso telesterion di Demetra, non lontano dalla Pietra
Senzasorriso, il 20 del mese di Boedromione, al termine di
un’interminabile processione orgiastica, metteva in scena la discesa
agli inferi di Persefone e la sua rinascita nel ciclo primaverile della
terra.
L’immagine della Madre e della Figlia, la spiga mietuta
dallo ierofante, la melograna rosso sangue, il sacro accoppiamento, le
altre “cose indicibili”, la Grande Luce che tutti descrivono lampeggiare
“in alternanza” dal sottomondo di tenebra: il dramma sacro eleusino,
residuo di riti dell’antica religione femminile — meno quella di Iside,
di cui ci parlano Apuleio e Collodi, che quella dell’antica Dea Bianca
di Graves — non dava al miste “un insegnamento”, ma, come spiega
Aristotele, “un’impronta”, un marchio: «L’iniziato non deve apprendere
qualcosa ma raggiungere una certa condizione psichica», disporsi a uno
stato di coscienza alternativo, altrimenti irraggiungibile e da allora
irreversibile, cui non necessariamente concorreva il kykeon, la bevanda
sacra dei misteri, forse dotata di proprietà psicotrope, ma che
certamente, come esplicitato anche nelle lamine orfiche, abbatteva la
strutturazione dell’io in una promessa di immortalità “felice e
beatissima” e tanto più dolce in quanto già attuata nella morte-
in-vita.
«Nella religione degli antichi greci si manifesta la
facoltà di vedere il mondo nella luce del divino. E le forme nelle quali
questo mondo si è manifestato divinamente ai greci non dimostrano forse
la loro verità nel fatto che vivono ancora oggi? », scriveva nel 1929
Walter Otto ( Gli dèi della Grecia, ripubblicato da Adelphi, pagg. 343,
euro 42). Anche dopo la fine del paganesimo, anche se, come denunciò
Plutarco, «il grande Dio Pan è morto», il mito greco è rimasto vivo. Se
qualcosa è cambiata, non è stata certo la psiche umana, ma la la sua
capacità di collegarsi a quel “tutto” con cui secondo san Clemente di
Alessandria i Grandi Misteri di Eleusi avevano a che fare; a quella che i
neoplatonici avrebbero chiamato l’anima del mondo: la sua “religione”,
da “religo”, legare. Gli dèi dell’antichità sono scomparsi solo in
apparenza. Si sono inabissati nel profondo dell’inconscio collettivo,
per riaffiorarne continuamente: come sintomi, ha intuito Jung, perché il
mito e il sintomo sono la stessa cosa, perché «se vogliamo studiare la
sofferenza umana», come ha detto James Hillman, «dobbiamo studiare il
mito».