Il Sole 2.3.16
Elezioni americane. Aumentare le risorse pubbliche per far crescere il Pil del 30% in un decennio
Sanders punta sulla spesa e sbaglia
di Giampaolo Galli
La ricetta del candidato alla nomination democratica criticata dagli economisti
Quattro
economisti democratici – Alan Krueger, Austan Goolsbee, Christina Romer
e Laura Tyson, tutti ex presidenti del Council of Economic Adviser di
Obama o di Clinton – hanno scritto una lettera molto critica al senatore
Bernie Sanders e al suo consulente economico, Gerald Friedman,
ottenendo il sostegno di tanti economisti e, fra gli altri, di Paul
Krugman.
La critica è quella di attribuire effetti quasi
miracolistici ad un grandioso piano di aumento della spesa pubblica.
Come ha ben spiegato Justin Wolfers dell’Università del Michigan sul
«New York Times» del 26 febbraio il problema non riguarda né i dettagli
del piano né la qualità delle stime econometriche o i valori dei
moltiplicatori, ma la logica alla base dell’intero ragionamento di
Friedman e Sanders. Per questo la discussione americana è rilevante
anche per il dibattito europeo su austerità e crescita.
L’idea del
piano Sanders è quella di aumentare la spesa pubblica in misura tale da
generare un forte aumento del Pil, oltre il 30% rispetto allo scenario
base, nell’arco di una decina di anni. Inizialmente il deficit federale
peggiorerebbe, ma nel giro di un paio d’anni migliorerebbe, e di molto,
per l’effetto di maggiori tasse sui ricchi e della maggior crescita
economica sul gettito fiscale.
Il fondamentale problema logico di
questo ragionamento sta nel non vedere che un aumento temporaneo del
disavanzo di bilancio non può che avere effetti temporanei sul livello
dell’attività economica.
All’inizio della manovra, quando si
aumentano la spesa e il disavanzo, il Pil aumenta. Successivamente però,
quando il disavanzo diminuisce e addirittura si trasforma in surplus,
lo stimolo viene meno e, a parità di altre condizioni, il Pil torna al
punto di partenza. Ed è sostanzialmente irrilevante se la causa del
miglioramento del bilancio è un aumento, endogeno o esogeno, delle
tasse, oppure un piano di rientro della spesa.
Né è
particolarmente rilevante il valore del moltiplicatore, purché esso non
sia troppo diverso nelle fasi di espansione e in quelle di restrizione
del bilancio. Peraltro non è pensabile - né lo pensa Sanders - che il
deficit possa essere aumentato in permanenza perché in tal caso ad un
aumento una tantum del Pil corrisponderebbe un aumento continuo e senza
limiti del debito pubblico.
Secondo il resoconto di Justin
Wolfers, Friedman avrebbe ammesso che la sua non è macroeconomia
standard, ma avrebbe sostenuto che si tratta di una versione alla Joan
Robinson del pensiero keynesiano, in cui in sostanza la spesa pubblica,
ancorché temporanea, può avere effetti permanenti non solo sul livello
ma addirittura sul tasso di crescita del Pil.
In effetti, non
mancano esempi in cui qualcosa del genere può accadere. Ad esempio,
l’intervento dello Stato per far fronte ai danni di una catastrofe
naturale può fare una enorme differenza sul tasso di crescita potenziale
di una determinata comunità. Lo stesso può valere per alcuni
investimenti critici volti a rimuovere colli di bottiglia, ad esempio
nei trasporti, che bloccano lo sviluppo di una determinata area.
In
un lavoro molto citato del 2012, Larry Summers e Bradford De Long
argomentano che vi possono essere effetti permanenti della spesa
pubblica sul Pil potenziale, ma spiegano anche che il conseguente
maggior gettito fiscale consente al più allo Stato di fare un piano di
rientro in cui, in un contesto di politiche monetarie molto accomodanti,
gli interessi si autofinanziano con la crescita.
Anche quindi con
le ipotesi più ottimistiche di Summers e De Long rimane che se oggi si
spendono 100 dollari in più, prima o poi si dovranno spendere 100
dollari in meno. In altre parole, con il disavanzo si può spostare nel
tempo l’andamento del ciclo o attenuare la severità di una recessione,
ma non si può generare crescita stabile.
Alcuni in Europa sembrano
pensare che questa affermazione sia figlia dell’ideologia ordoliberista
tedesca. Per i quattro illustri firmatari della lettera a Sanders
invece si tratta di una verità assolutamente evidente, al punto che la
sua apparente negazione da parte del candidato alla presidenza li induce
a preoccuparsi per la stessa reputazione e credibilità del Partito
Democratico.
Essi ricordano le critiche avanzate dai democratici,
sulla base dell’evidenza economica, alle tesi dei Repubblicani sugli
effetti miracolistici di riduzioni delle tasse sui ricchi. Lo stesso
rigore deve allora essere applicato alle proposte dei democratici, pena
la perdita di credibilità dell’agenda economica dei progressisti e la
sostanziale impossibilità di dimostrare l’infondatezza degli
“irrealistici proclami” dei candidati repubblicani.
Dagli Stati Uniti arriva una lezione di serietà che ci è difficile
non invidiare.