martedì 29 marzo 2016

Repubblica 29.3.15
Viaggio nella città di Mussolini mentre gli studiosi si dividono sul centro dedicato al fascismo “Manca un taglio storico” Ma il progetto va avanti
La sfida di Predappio alla nostalgia del duce
di Simonetta Fiori

PREDAPPIO “La Ducevita”, titolò anni fa un giovane documentarista francese. Chissà cosa voleva dire con quella sua invenzione che richiamava il film di Fellini. Sicuramente la Ducevita è una condizione esistenziale spezzata dove Mussolini è destino e condanna, marketing e vergogna, brand commerciale e memoria luttuosa. «Predappio è un luogo di contraddizioni », dice il sindaco Giorgio Frassineti seduto nel suo ufficio che fu la stanzetta del duce bambino, fasci littori ovunque, sulla scrivania, sulla mobilia ereditata dal passato, sulle pareti affrescate della sala grande illuminate da uno splendido Venini. Frassineti è l’ultimo di una lunga serie di sindaci di sinistra che per settant’anni hanno governato la città natale di Mussolini. Ma la contraddizione non è nella guida rossa o meglio rosé di un borgo originariamente nero, perché questa è storia d’Italia. La contraddizione è che il primo cittadino deve fare gli interessi della sua comunità. E se questo significa convivere con il fantasma di Mussolini, bisogna cercare di farlo al meglio e nel modo più redditizio. Perché a quel destino non si sfugge.
Lo comprese nel 1957 il sindaco comunista dell’epoca, Egidio Proli, che accolse le ingombranti spoglie ducesche con il memorabile detto: non ci ha fatto paura da vivo, non ce ne farà da morto. Ed era stato un premier democristiano, il predappiese Adone Zoli, a consentire il trasferimento della salma, pensando certo di non danneggiare la sua città. Oggi la proposta cambia di segno, anzi nasce per contrastare il pellegrinaggio cimiteriale, ma sempre per il benessere del borgo: la creazione di un museo internazionale dedicato al ventennio fascista. Da alcuni anni è l’idea fissa di Frassineti, un geologo molto sveglio ora al suo secondo mandato. «La storia contro la memoria. Il rigore dell’interpretazione contro la carnevalata dei cinquantamila italiani che ogni anno sfilano commossi davanti alla tomba del duce», ripete convinto il sindaco. Il museo avrebbe la sua destinazione naturale nella Camera del Fascio che torreggia sulla piazza principale di Predappio: duemiladuecento metri quadrati in stile razionalista con la grande torre simbolo di virilità come piaceva agli architetti del duce. Tutt’intorno le case economiche, la scuola elementare, la caserma dei carabinieri, l’Ex casa della Gioventù littoria inventate dalle migliori firme di regime per la nuova Betlemme d’Italia. Qui, nell’epicentro della città costruita a immagine di Mussolini, dovrebbe sorgere il museo del fascismo che l’Italia ancora non ha.
Il progetto è piaciuto molto al premier Matteo Renzi e al sottosegretario Luca Lotti, che tre settimane fa ha mandato i suoi ingegneri per le prime rilevazioni. Cinque milioni è il costo per il recupero dell’edificio: tre sono stati già stanziati e due dovrebbero arrivare dal governo. «I lavori non finiranno prima del 2020. E non sarò certo io a inaugurare il nuovo museo da sindaco», dice Frassineti toccandosi il suo braccialetto rosso che pare funzioni da scacciaguai. «È un braccialetto per gli accidenti che mi stanno mandando, soprattutto dalla mia stessa parte politica». Si sente incompreso, il sindaco di sinistra nato a Predappio. Non da tutti però. È riuscito a convincere anche i partigiani dell’Anpi e il vertice nazionale dell’Istituto Storico della Resistenza, e dal modo in cui lo racconta si capisce gli è costata una fatica immane. Ma la comunità degli storici resta divisa. «Perché Predappio anziché Milano o Roma? », si è domandato sulle pagine del Sole 24 Ore uno storico dell’autorevolezza di Carlo Ginzburg. «Ma è chiaro: Predappio si presta ai pellegrinaggi, un termine associato al culto». E cita lo sciagurato esempio del museo di Stalin sorto nella sua città natale, Gori, «un trionfo di nazionalismo georgiano e di culto della personalità». Anche Simon Levi Sullam insiste sulla forza evocativa dei luoghi, «non sono privi di implicazioni ed è difficile decostruirli o neutralizzarli perché sono anche dei simboli». Con la potenza che si portano dietro i simboli. Il sindaco Frassineti ascolta le obiezioni e scuote la testa: «E allora che devo fare? Restare passivo davanti all’adorazione?».
Il pellegrinaggio al mausoleo ha mantenuto negli anni un flusso costante. La domenica prima della Pasqua il registro funebre raccoglieva centoventi firme, con dediche inequivocabili. Non solo sopravvissuti e nostalgici, ma molti ragazzi che invocano il duce come un risolutore della crisi italiana. E poi ci sono i turisti neutri, i curiosi, quelli da tripadvisor che premiano la pulizia della cripta e lo stivale nero in bacheca con la stessa distaccata acribia con cui danno le stellette ai resort e agli chef. È qui che forse va cercata la più insidiosa contraddizione di Predappio. Non già nella contrapposizione ideologica tra adorazione e damnatio, che appartiene soprattutto al Novecento. Non solo nell’ambiguo fascino del simbolo, che pure resiste. Ma nella storia-spettacolo che è tipica della postmodernità, dove tutto è mescolato e confuso, senza un giudizio etico e senza scala di valori. Anzi, con quell’alzata di spalla con cui i tripadvisoristi liquidano il giudizio storico di condanna come retaggio polveroso dell’età del bronzo. E alla cripta assegnano la coccarda dell’eccellenza, quella dei localini da non perdere.
La storia come industria del divertimento. E in fondo Predappio si presta a questo equivoco, con i suoi diciotto ristoranti che sono tanti rispetto ai seimilacinquecento abitanti. E il nuovo raffinato resort sorto di recente. Anche i ristoratori parlano delle tre festività ducesche – il 28 ottobre, il giorno della marcia su Roma, il 29 luglio data di nascita e il 28 aprile data di morte – come se parlassero di Natale Capodanno e Pasqua. E hanno tutto il diritto di farlo perché campano delle tavolate di quei giorni. E il signor Luigi Pompignoli, titolare del più raccapricciante negozio di souvenir mussoliniani (inclusa la bottiglia di ricino), plaude al nuovo museo perché porterà danaro alla sua città e spera anche nelle sue tasche. E allora torniamo al punto di partenza: come separare nitidamente i due rituali, quello della celebrazione da quello della riflessione critica? Per il suo museo il sindaco Frassineti ha chiesto aiuto a un comitato che vanta studiosi autorevoli, guidato da Marcello Flores e composto tra gli altri da Giovanni Gozzini, Patrizia Asproni, Andrea e Vittorio Emiliani, Massimo Gardini, Carlo Giunchi. Il documento con le linee guida appare ineccepibile, soprattutto nella premessa in cui si rivendica l’urgenza di strappare Predappio alla memoria per restituirla alla storia. E può essere interessante là dove insiste sull’obiettivo di «emozionare il visitatore», oltre che di fornirgli «gli strumenti della conoscenza». Ma diventa scivoloso là dove teorizza la necessità di rinunciare a un punto di vista storiografico – «il museo non può essere la celebrazione di un punto di vista della storia, neppure di quello più giusto» – per preferire letture diverse che possano creare «una memoria comune». Su Mussolini esiste la possibilità di una «memoria comune»? «No. Esiste solo la possibilità di uno studio serio», risponde Giovanni De Luna. «E mi lascia perplesso un progetto che rinunci a un punto di vista storiografico definito e dichiarato. Perché qualsiasi narrazione, per quanto seduttiva voglia essere, ha bisogno di un principio organizzativo e questo consiste proprio nella scelta di un taglio interpretativo». Altrimenti il rischio è una mescolanza babelica di materiali con il risultato di puntare più sull’esperienza emotiva del visitatore che sulla crescita della sua conoscenza storica. «Ed è questa la tendenza ormai prevalente nei musei di storia contemporanea », aggiunge lo studioso. «Non a caso vengono inseriti nei pacchetti dei tour operator ».
Un’operazione lecita, naturalmente. Ma qualche interrogativo in più lo pone se ad andare in scena non è la storia dei Fenici ma un regime totalitario e razzista che ha perseguitato gli ebrei e mandato a morire milioni di italiani in guerra. Ne è avvertito il sindaco Frassineti? «Se rischio di far danno, sono il primo a tirarmi indietro», dice con tutta la sua buona fede. E lo ripete a due vecchie sorelle predappiesi che lo guardano perplesse, forse perché pensano al fratello partigiano. Ma poi si lasciano convincere, fiduciose. La Ducevita a Predappio non ammette colori troppo netti.