Repubblica 29.3.15
Viaggio nella città di Mussolini mentre gli
studiosi si dividono sul centro dedicato al fascismo “Manca un taglio
storico” Ma il progetto va avanti
La sfida di Predappio alla nostalgia del duce
di Simonetta Fiori
PREDAPPIO
“La Ducevita”, titolò anni fa un giovane documentarista francese.
Chissà cosa voleva dire con quella sua invenzione che richiamava il film
di Fellini. Sicuramente la Ducevita è una condizione esistenziale
spezzata dove Mussolini è destino e condanna, marketing e vergogna,
brand commerciale e memoria luttuosa. «Predappio è un luogo di
contraddizioni », dice il sindaco Giorgio Frassineti seduto nel suo
ufficio che fu la stanzetta del duce bambino, fasci littori ovunque,
sulla scrivania, sulla mobilia ereditata dal passato, sulle pareti
affrescate della sala grande illuminate da uno splendido Venini.
Frassineti è l’ultimo di una lunga serie di sindaci di sinistra che per
settant’anni hanno governato la città natale di Mussolini. Ma la
contraddizione non è nella guida rossa o meglio rosé di un borgo
originariamente nero, perché questa è storia d’Italia. La contraddizione
è che il primo cittadino deve fare gli interessi della sua comunità. E
se questo significa convivere con il fantasma di Mussolini, bisogna
cercare di farlo al meglio e nel modo più redditizio. Perché a quel
destino non si sfugge.
Lo comprese nel 1957 il sindaco comunista
dell’epoca, Egidio Proli, che accolse le ingombranti spoglie ducesche
con il memorabile detto: non ci ha fatto paura da vivo, non ce ne farà
da morto. Ed era stato un premier democristiano, il predappiese Adone
Zoli, a consentire il trasferimento della salma, pensando certo di non
danneggiare la sua città. Oggi la proposta cambia di segno, anzi nasce
per contrastare il pellegrinaggio cimiteriale, ma sempre per il
benessere del borgo: la creazione di un museo internazionale dedicato al
ventennio fascista. Da alcuni anni è l’idea fissa di Frassineti, un
geologo molto sveglio ora al suo secondo mandato. «La storia contro la
memoria. Il rigore dell’interpretazione contro la carnevalata dei
cinquantamila italiani che ogni anno sfilano commossi davanti alla tomba
del duce», ripete convinto il sindaco. Il museo avrebbe la sua
destinazione naturale nella Camera del Fascio che torreggia sulla piazza
principale di Predappio: duemiladuecento metri quadrati in stile
razionalista con la grande torre simbolo di virilità come piaceva agli
architetti del duce. Tutt’intorno le case economiche, la scuola
elementare, la caserma dei carabinieri, l’Ex casa della Gioventù
littoria inventate dalle migliori firme di regime per la nuova Betlemme
d’Italia. Qui, nell’epicentro della città costruita a immagine di
Mussolini, dovrebbe sorgere il museo del fascismo che l’Italia ancora
non ha.
Il progetto è piaciuto molto al premier Matteo Renzi e al
sottosegretario Luca Lotti, che tre settimane fa ha mandato i suoi
ingegneri per le prime rilevazioni. Cinque milioni è il costo per il
recupero dell’edificio: tre sono stati già stanziati e due dovrebbero
arrivare dal governo. «I lavori non finiranno prima del 2020. E non sarò
certo io a inaugurare il nuovo museo da sindaco», dice Frassineti
toccandosi il suo braccialetto rosso che pare funzioni da scacciaguai.
«È un braccialetto per gli accidenti che mi stanno mandando, soprattutto
dalla mia stessa parte politica». Si sente incompreso, il sindaco di
sinistra nato a Predappio. Non da tutti però. È riuscito a convincere
anche i partigiani dell’Anpi e il vertice nazionale dell’Istituto
Storico della Resistenza, e dal modo in cui lo racconta si capisce gli è
costata una fatica immane. Ma la comunità degli storici resta divisa.
«Perché Predappio anziché Milano o Roma? », si è domandato sulle pagine
del Sole 24 Ore uno storico dell’autorevolezza di Carlo Ginzburg. «Ma è
chiaro: Predappio si presta ai pellegrinaggi, un termine associato al
culto». E cita lo sciagurato esempio del museo di Stalin sorto nella sua
città natale, Gori, «un trionfo di nazionalismo georgiano e di culto
della personalità». Anche Simon Levi Sullam insiste sulla forza
evocativa dei luoghi, «non sono privi di implicazioni ed è difficile
decostruirli o neutralizzarli perché sono anche dei simboli». Con la
potenza che si portano dietro i simboli. Il sindaco Frassineti ascolta
le obiezioni e scuote la testa: «E allora che devo fare? Restare passivo
davanti all’adorazione?».
Il pellegrinaggio al mausoleo ha
mantenuto negli anni un flusso costante. La domenica prima della Pasqua
il registro funebre raccoglieva centoventi firme, con dediche
inequivocabili. Non solo sopravvissuti e nostalgici, ma molti ragazzi
che invocano il duce come un risolutore della crisi italiana. E poi ci
sono i turisti neutri, i curiosi, quelli da tripadvisor che premiano la
pulizia della cripta e lo stivale nero in bacheca con la stessa
distaccata acribia con cui danno le stellette ai resort e agli chef. È
qui che forse va cercata la più insidiosa contraddizione di Predappio.
Non già nella contrapposizione ideologica tra adorazione e damnatio, che
appartiene soprattutto al Novecento. Non solo nell’ambiguo fascino del
simbolo, che pure resiste. Ma nella storia-spettacolo che è tipica della
postmodernità, dove tutto è mescolato e confuso, senza un giudizio
etico e senza scala di valori. Anzi, con quell’alzata di spalla con cui i
tripadvisoristi liquidano il giudizio storico di condanna come retaggio
polveroso dell’età del bronzo. E alla cripta assegnano la coccarda
dell’eccellenza, quella dei localini da non perdere.
La storia
come industria del divertimento. E in fondo Predappio si presta a questo
equivoco, con i suoi diciotto ristoranti che sono tanti rispetto ai
seimilacinquecento abitanti. E il nuovo raffinato resort sorto di
recente. Anche i ristoratori parlano delle tre festività ducesche – il
28 ottobre, il giorno della marcia su Roma, il 29 luglio data di nascita
e il 28 aprile data di morte – come se parlassero di Natale Capodanno e
Pasqua. E hanno tutto il diritto di farlo perché campano delle tavolate
di quei giorni. E il signor Luigi Pompignoli, titolare del più
raccapricciante negozio di souvenir mussoliniani (inclusa la bottiglia
di ricino), plaude al nuovo museo perché porterà danaro alla sua città e
spera anche nelle sue tasche. E allora torniamo al punto di partenza:
come separare nitidamente i due rituali, quello della celebrazione da
quello della riflessione critica? Per il suo museo il sindaco Frassineti
ha chiesto aiuto a un comitato che vanta studiosi autorevoli, guidato
da Marcello Flores e composto tra gli altri da Giovanni Gozzini,
Patrizia Asproni, Andrea e Vittorio Emiliani, Massimo Gardini, Carlo
Giunchi. Il documento con le linee guida appare ineccepibile,
soprattutto nella premessa in cui si rivendica l’urgenza di strappare
Predappio alla memoria per restituirla alla storia. E può essere
interessante là dove insiste sull’obiettivo di «emozionare il
visitatore», oltre che di fornirgli «gli strumenti della conoscenza». Ma
diventa scivoloso là dove teorizza la necessità di rinunciare a un
punto di vista storiografico – «il museo non può essere la celebrazione
di un punto di vista della storia, neppure di quello più giusto» – per
preferire letture diverse che possano creare «una memoria comune». Su
Mussolini esiste la possibilità di una «memoria comune»? «No. Esiste
solo la possibilità di uno studio serio», risponde Giovanni De Luna. «E
mi lascia perplesso un progetto che rinunci a un punto di vista
storiografico definito e dichiarato. Perché qualsiasi narrazione, per
quanto seduttiva voglia essere, ha bisogno di un principio organizzativo
e questo consiste proprio nella scelta di un taglio interpretativo».
Altrimenti il rischio è una mescolanza babelica di materiali con il
risultato di puntare più sull’esperienza emotiva del visitatore che
sulla crescita della sua conoscenza storica. «Ed è questa la tendenza
ormai prevalente nei musei di storia contemporanea », aggiunge lo
studioso. «Non a caso vengono inseriti nei pacchetti dei tour operator
».
Un’operazione lecita, naturalmente. Ma qualche interrogativo in
più lo pone se ad andare in scena non è la storia dei Fenici ma un
regime totalitario e razzista che ha perseguitato gli ebrei e mandato a
morire milioni di italiani in guerra. Ne è avvertito il sindaco
Frassineti? «Se rischio di far danno, sono il primo a tirarmi indietro»,
dice con tutta la sua buona fede. E lo ripete a due vecchie sorelle
predappiesi che lo guardano perplesse, forse perché pensano al fratello
partigiano. Ma poi si lasciano convincere, fiduciose. La Ducevita a
Predappio non ammette colori troppo netti.