La Stampa 29.3.16
Bonino: “Anche l’Italia rischia. Ci serve una Fbi europea”
“Su Regeni siamo stati troppo timidi, dobbiamo controbattere alle sgangherate versioni egiziane”
di Francesca Paci
Chiamatela
idealista, ma per la radicale Emma Bonino la soluzione resta gli Stati
Uniti d’Europa. Sul terrorismo, sulla Libia, sui migranti, perfino sui
rapporti tra Italia ed Egitto ai ferri corti per il caso Regeni
trasformatosi in un caso internazionale: «Senza politica estera comune
non c’è intelligence», dice l’ex ministro degli esteri. E senza
un’intelligence comune dell’Unione contrastare i nuovi jihadisti è pura
teoria.
I terroristi di Bruxelles sono passati indisturbati dall’Italia: cosa facevano i nostri servizi?
«Posto
che perfino la sicurezza americana fu beffata nel 2001, se i terroristi
di Bruxelles non erano segnalati come potevamo intercettarli? L’Europa
fa grandi sforzi di coordinamento ma l’intelligence non è questione di
coordinare 28 paesi bensì di politica estera, di sicurezza e di difesa
comune: se non c’è, non c’è intelligence comune. Nell’integrazione
dell’UE la sicurezza è rimasta competenza nazionale: per rimediare
bisognerebbe rivedere i trattati e invece i paesi pensano a rivedere le
proprie Costituzioni illudendosi che chiudere le frontiere risolva il
problema».
Cosa risolve invece?
«Tenere la barra dritta
sugli Stati Uniti d’Europa e da lì costruire una politica estera comune e
un’intelligence comune tipo Fbi europea. L’Italia, al di là delle
polemiche, è il paese che si sta spendendo di più per una maggiore
integrazione. Dico le polemiche perché mi dispiace sentire i nostri
leader che parlano dell’Europa come un’entità ostile: siamo tra i
fondatori dell’UE e se non funziona non è per via dei burocrati di
Bruxelles ma perché così l’hanno voluta i paesi membri, Italia
compresa».
Ha l’impressione che l’Italia mantenga un basso profilo sui diversi dossier internazionali?
«Non
credo nell’illusione dell’influenza nazionale, non ci aiuta a governare
i fenomeni. L’Italia a volte ha preso delle iniziative, come Mare
Nostrum. Ma anche lì la mia proposta di farne un intervento europeo
incrociò il fuoco di sbarramento di Bruxelles. Davanti ai rifugiati in
Grecia penso che abbiamo appaltato i confini europei alla Turchia e mi
dico che questa Europa - 500 milioni di abitanti, il continente più
ricco del mondo - tra il 2008 e il 2014, durante la peggiore crisi
economica, ha concesso 2,5 milioni di visti l’anno mostrandosi così
consapevole del proprio invecchiamento e del bisogno di manodopera. E
non sappiamo gestire i rifugiati?».
L’Italia è esposta al terrorismo come Francia e Belgio?
«Oltre
all’Europa c’è il Pakistan, che piange oggi 70 morti, il Mali, l’Iraq,
la Costa d’Avorio. Il punto non è prevedere il prossimo paese target ma
ammettere la difficoltà di capire l’agenda di questi terroristi. Detto
ciò non so da dove vengano certe convinzioni e non credo affatto che
l’Italia sia al riparo».
L’Italia si sta facendo prendere in giro dall’Egitto su Regeni?
«In
questi casi la tenuta e la durata sono la forza delle cose. Io impiegai
6 mesi per riportare in Italia la Shalabayeva. Credo che su Regeni
l’Italia debba insistere e controbattere alle versioni sgangherate del
Cairo. L’Egitto vorrebbe chiudere perché la vicenda di un singolo sta
facendo il giro del mondo».
Crede che dovremmo richiamare il nostro ambasciatore?
«No,
la nostra presenza in Egitto in questa fase è fondamentale. L’asset
dell’Italia è non mollare. L’Egitto è un partner importante per noi ma
vale anche il contrario. Sono pragmatica: non è che si debba rompere con
tutti i regimi autoritari ma serve misura, né fare il baciamano a
Gheddafi, né coprire le statue davanti agli iraniani, nè affrettarsi a
riconoscere Morsi, Sisi o chi per loro. La sorte di Regeni è
un’incognita, magari c’è dietro la lotta tra i vari gruppi del
mukabarat, il servizio segreto egiziano. Ma l’Italia deve tenere duro
anche perché oggi l’Egitto teme che il caso finisca per squarciare il
velo sulla repressione in corso e su migliaia di cosiddetti Fratelli
Musulmani in cella senza processo né capo d’accusa».
Intervenire o no: come legge le incertezze italiane sulla Libia?
«Credo
che l’accordo Kobler sia stato precipitoso e che non ci siano basi
perché quel governo entri a Tripoli. Ho l’impressione che finora abbia
prevalso la pressione di Usa, Regno Unito e Francia per accelerare i
tempi temendo il precipitare degli eventi, ma è un accordo con troppi
esclusi e non può funzionare. Dovremmo anche capire cosa significa che a
Tripoli ci sono gli islamisti: sono gli stessi di Tobruck, i primi di
rito Fratelli Musulmani e gli altri di rito wahabita. L’Italia, come
tutti, vuole installare a forza questo governo inviso a Tripoli come a
Tobruck. Ma i nostri interessi non sono quelli francesi e l’Europa non
ha una politica estera comune: quando sento parlare di operazioni
militari mi chiedo contro chi? Per chi? Chi fa il controllo del
territorio dopo? Non vedo nessuna strada militare per la Libia a meno di
volerla rioccupare, e non mi pare sia in discussione. Bisogna
considerare anche che oggi l’esodo dei migranti sembra un po’ ridotto
per via dei controlli di Frontex ma i disperati continuano ad arrivare
dal Sahel e la Libia resta un serbatoio di profughi e altro: se si
chiude la rotta balcanica riesploderà».