Repubblica 24.3.16
Obama sta facendo davvero la cosa giusta?
Il suo obiettivo sembra essere ridurre il coinvolgimento in Medio Oriente
Sulla carta suona bene, fino al prossimo attentato
di Thomas L. Friedman
COME
si legge nella recente intervista che ha rilasciato alla rivista The
Atlantic, il presidente americano Obama biasima pressoché tutti i leader
mediorientali, compresi quelli di Turchia, Iraq, Siria, Israele, Arabia
Saudita, Qatar, Giordania, Iran e palestinesi. Sembra quasi che il suo
obiettivo fondamentale sia portare a termine il mandato ed essere in
grado di dire che ha ridotto il coinvolgimento dell’America in Iraq e in
Afghanistan, scongiurato un coinvolgimento in Siria e in Libia,
insegnato agli americani i limiti della nostra capacità di sistemare le
cose che non capiamo in Paesi delle cui leadership diffidiamo e i cui
destini non hanno più lo stesso impatto di un tempo su di noi.
Dopo
tutto, ha fatto sapere il presidente, ogni anno muoiono più americani
scivolando nella vasca da bagno o scontrandosi in automobile con un
cervo di quanti ne muoiano per mano dei terroristi. Di conseguenza,
dobbiamo smetterla di farci prendere dalla voglia di invadere il Medio
Oriente in risposta a ogni minaccia. Sulla carta tutto ciò suona bene,
almeno fino a quando un attentato terroristico come quello di martedì a
Bruxelles non capita sul nostro territorio. Il presidente Obama sta
facendo davvero la cosa giusta?
In visita qui nell’Iraq
settentrionale, in Kurdistan, ho chiacchierato con molti iracheni
ricavando l’impressione che Obama non abbia del tutto torto. Durante un
gruppo di discussione presso l’università di Sulaimaniya, in Iraq, ho
osservato i leader iracheni litigare e puntarsi il dito contro l’un
l’altro e non mi è rimasta granché voglia di comprare azioni dell’Isx,
la Borsa irachena. A colpirmi, in particolare, è stato lo sceicco
Abdullah Humedi Ajeel al Yawar, capo della tribù Shammar originaria di
Mosul, oggi occupata dall’Is, quando si è alzato in piedi con i suoi
abiti eleganti e ha chiesto al ministro del petrolio dell’Iraq: «Che ne è
stato dei 700 miliardi di dollari [i proventi delle vendite del
petrolio] arrivati in Iraq? Non è stato eretto neppure un ponte! Che
fine hanno fatto quei 700 miliardi? Lo chiedo col cuore». Le sue parole
sono state accolte dall’applauso più fragoroso della giornata. Non
potremo stabilizzare l’Iraq o la Siria se i loro leader non
condivideranno il potere e non smetteranno di dedicarsi a un saccheggio
sistematico.
Starsene seduti lì, però, induce anche a chiedersi se
Obama non sia ormai a tal punto ossessionato dalla difesa
dell’approccio “giù le mani” che ha nei confronti della Siria da
sottovalutare i rischi della sua inazione e l’opportunità per la potenza
americana di far pendere questa regione dalla nostra parte, senza dover
invadere alcun territorio. In un primo tempo ho pensato che Obama
avesse fatto la scelta giusta sulla Siria. Oggi, però, milioni di
rifugiati in fuga dalla Siria stanno destabilizzando l’Unione europea
insieme ai migranti che per questioni economiche vi si riversano dalle
coste dell’Africa attraverso la Libia dopo la malaparata
dell’abborracciata operazione voluta dalla Nato e da Obama.
L’Ue è
il partner economico e strategico più importante dell’America, ed è
l’altro grande centro del capitalismo democratico nel mondo. L’Ue
amplifica il potere statunitense e, qualora si trovasse ad arrancare,
saremmo noi a doverci adoperare molto di più da soli in difesa del mondo
libero. Insieme, noi e l’Ue dovremmo invece pensare a come creare
sicurezza in territorio libico e siriano per rallentare l’ondata dei
rifugiati prima che essa si riversi sull’Europa travolgendola. La Storia
non sarà clemente con Obama se si asterrà dal farlo.
Nel
contempo, Obama ha davanti a sé un’occasione che nessun altro presidente
degli Stati Uniti ha mai avuto: in Medio Oriente si sono affermate “da
sole” due giovani democrazie. La prima è in Tunisia: i leader della
società civile sono stati insigniti del Nobel per la Pace per aver
scritto la Costituzione più democratica mai redatta da quelle parti.
Oggi, però, l’esperimento tunisino è a rischio di destabilizzazione a
causa delle armi, dei rifugiati e dei terroristi islamici in arrivo
dalla Libia ai quali abbiamo dato irresponsabilmente la stura.
L’Occidente dovrebbe essere presente in Tunisia e fornire assistenza
economica, tecnica e militare. «La Tunisia è una democrazia start-up»,
mi ha detto il suo ex primo ministro Mehdi Jomaa. «Sarà anche piccola,
ma ha un potere di leva enorme per il futuro della regione. Non riesco a
immaginare stabilità nell’area se la Tunisia non avrà successo».
L’altro
esperimento democratico fiorito da solo è nel Kurdistan iracheno, dove i
curdi hanno voluto costruire un’università in stile americano a
Sulaimaniya, perché vogliono emulare le nostre arti liberali, e hanno
appena inaugurato un secondo centro universitario americano a Dohuk. Il
piccolo Kurdistan, però, oggi ospita 1,8 milioni di rifugiati
provenienti da altre zone dell’Iraq e della Siria, e con i prezzi del
petrolio ai minimi storici è quasi sull’orlo della bancarotta. Il
governo curdo, che aveva permesso a un forte partito di opposizione di
emergere e non aveva ostacolato la libertà di stampa, ora è in procinto
di fare marcia indietro: il suo presidente Masoud Barzani non pare
intenzionato a lasciare il potere allo scadere del mandato, e la puzza
della corruzione dilaga ovunque. L’esperimento democratico curdo è
appeso a un filo. Più aiuti concessi dagli Stati Uniti a patto di un
immediato ritorno del Kurdistan sulla strada della vera democrazia
consentirebbero di compiere più passi avanti duraturi. «È in corso una
battaglia per la sopravvivenza», ha detto Dlawer Ala’Aldeen, presidente
del Middle East Research Institute del Kurdistan. «L’America deve
coinvolgere i curdi, offrire loro aiuto incondizionato, renderli i
partner che l’America merita. Qui tutti ascoltano e amano l’America. Il
popolo curdo vuole che l’America lo difenda dall’Iran e dalla Turchia».
Kurdistan
e Tunisia sono proprio ciò che sognavamo: democrazie sbocciate da sole e
che potrebbero essere prese a modello da altri Paesi e popoli nella
regione. Ma hanno bisogno di aiuto. Purtroppo, Obama sembra essere a tal
punto ossessionato dall’idea di non essere George W. Bush in Medio
Oriente da aver smesso di pensare che è Barack Obama e a quello che è
giusto fare per lasciare dietro di sé qualcosa di unico, garantendo una
testa di ponte per la democrazia senza bisogno di invadere alcun
territorio.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2016 New York Times News Service