Repubblica 24.3.16
Abbiamo ancora bisogno della filosofia
Perché la crisi di inizio Millennio si sconfigge col pensiero critico. Il nuovo libro di Roberto Esposito
di Antonio Gnoli
Il
nuovo libro di Roberto Esposito (che esce dall’editore Einaudi) ha come
oggetto l’Europa: com’era e com’è. Già il titolo “Da fuori” sembra
richiamare forze sociali e culturali imprevedibili che stanno
trasformando l’immagine del vecchio continente. Oggi in crisi, come lo
fu negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo. “Da fuori” ha un
sottotitolo: “Una filosofia per l’Europa”. Ma può l’Europa essere
salvata dalla filosofia? Non c’è riuscita la politica; e neppure
l’economia; perché mai il sapere che fu di Platone e Aristotele dovrebbe
avere qualche chance di successo? Perché una disciplina instabile,
contraddittoria, a volte rissosa, dovrebbe partorire dal suo ventre le
giuste risposte? «Forse perché — risponde Esposito — è proprio
l’inquietudine della filosofia, la sua mobilità,
a consentirle di
seguire e talvolta di anticipare le trasformazioni repentine del mondo
contemporaneo meglio di saperi più statici e piantati sulle loro
radici».
La filosofia già in passato, con Husserl e Heidegger, in
particolare, aveva affrontato la crisi europea riconducendola al grande
tema del nichilismo: «Con l’espressione nichilismo, quei pensatori
intendevano dirci che la civiltà occidentale era esausta e che il solo
modo di ritrovare l’egemonia perduta era risalire alle radici greche. Il
riferimento costante dell’Europa di Heidegger e di Husserl — malgrado
la loro diversità profonda — è tornare al proprio “centro”, ossia
all’origine».
Nel mondo greco, sostenevano i nostri autorevoli
filosofi, c’erano le risposte giuste. Bastava cercarle. Bastava calarsi
nel grande pozzo che nel frattempo l’Occidente aveva scavato e
riemergerne con la verità tra le mani. «Fu un terribile fraintendimento,
pensare che la crisi dell’identità europea fosse risolvibile con
l’appello ai presocratici e ai valori della Grecia antica. La filosofia
era troppo concentrata su di sé, troppo autoreferenziale perché potesse
davvero cogliere quello che avveniva al suo esterno. La sua miopia fu,
in altri termini, non essersi accorta che lì, in quella manciata di anni
aveva inizio la fine irrimediabile della centralità dell’Europa».
Non
solo Heidegger e Husserl, ma anche Valéry, Benda e Ortega sostarono sui
bordi di quella crisi immaginando che la soluzione fosse tutta interna
al pensiero e che bastasse l’appello allo spirito greco e ai suoi valori
per poter ridare smalto al vecchio continente. «Ma la partita giocata
tutta dentro il linguaggio filosofico non era sufficiente. Già per Hegel
l’oggetto della filosofia non era la propria storia interna, ma il
mondo con le sue contraddizioni. E quanto sta accadendo in questi anni
recenti lo dimostra con assoluta evidenza. Nella nostra epoca di
globalizzazione, non esiste più un luogo che non sia penetrato e
modificato dal suo “fuori”».
Nella nuova consapevolezza che
l’attuale scenario ha creato viene a maturazione un fatto di cui già un
poeta della statura di Hölderlin ebbe modo di accertare, ossia che lo
spirito dei greci non era imitabile. «Lo stesso Nietzsche, dice
Esposito, aveva acutamente visto che quello che per Hölderlin era una
frattura aperta tra modernità e classicità, diventava in lui un abisso
senza fondo in cui precipitavano tutti i valori europei».
L’idea
della “morte di Dio” tra le tante possibili declinazioni indicava per
Nietzsche l’impossibilità di tornare a una origine autentica, di cui la
metafisica fosse la garante assoluta. È di questo che le filosofie della
fine del Ventesimo secolo si rendono conto? Da Foucault a Derrida, da
Adorno a Habermas — in tempi differenti e con problematiche diverse — si
prende atto che il compito della filosofia non è più eseguibile
all’interno del proprio sapere. Il richiamo alla biopolitica (Foucault),
alla scrittura e violenza (Derrida), alla dialettica negativa (Adorno),
al patriottismo costituzionale (Habermas), non è altro che il modo con
cui, osserva Esposito, «il reale gioca la sua nuova partita con il
pensiero, includendo così ciò che sta fuori dei suoi confini».
La
parola confine sembra quella oggi più confusa e inadatta a garantire un
certo tasso di sovranità: «Temo che il confine oggi svolga una funzione
drammaticamente biopolitica. Ciò significa che il rapporto tra potere e
vita si svolge sempre più lungo e dentro faglie territoriali, sociali e
mentali che separano piuttosto che unire». Come dovremmo comportarci
davanti alle scene che ogni giorno reportage di immagini ci sbattono
sotto gli occhi? «Io credo che il confine resti una linea da cui bisogna
passare. Non possiamo abolirlo, ma non possiamo neppure concepirlo come
luoghi di operazioni poliziesche. Occorre ripensarlo come spazio
politico».
La filosofia può aiutare in questo compito che oggi ci
appare difficilissimo? «Il problema è che il confine non può essere solo
una soglia di esclusione, ma ciò che articola e integra esperienze,
culture, mondi diversi. Sono sempre più gli esseri umani che vivono,
lavorano, soffrono ai confini di città e paesi».
Tutto quanto sta
accadendo oggi era impensabile fino a una quindicina di anni fa. Il
risveglio dei nazionalismi da un lato e del populismo dall’altro hanno
scosso l’idea stessa di Europa e messo in crisi la categoria di
sovranità. Costruire un mondo nuovo con dei “pezzi importanti” del mondo
lasciato in frantumi non è semplice. Non lo è soprattutto se si pensa
al dilagare di un neo-localismo volto a proteggere con miopia le proprie
ragioni nazionali. Occorrerebbe che la filosofia, osserva Esposito, si
traducesse in “grande politica”. Ma come? «Comprendendo anzitutto che
nel mondo contemporaneo non è più possibile conservare gli attuali
rapporti di forza tra paesi ricchi e paesi poverissimi. Si tratta di un
equilibrio che ormai non tiene più e rischia di saltare tragicamente».
La
partita filosofica secondo Esposito si gioca oggi nel lasciare aperto
il discorso sulla civiltà senza tuttavia rinunciare alla forza. Secondo
l’esempio di Machiavelli e Vico, si tratta di trovare un equilibrio tra
le due componenti, evitando che una prenda il sopravvento sull’altra.
Ci
si può chiedere in conclusione se l’idea d’Europa che avevano sognato i
nostri padri abbia ancora un senso o non sia piuttosto tramontata. È
probabile che quel nobile progetto oggi sia inadatto a risolvere le
attuali contraddizioni. Forse un popolo europeo potrà nascere non in
virtù dei trattati e delle convenzioni, ma da spinte che provengono dal
basso: «Da questo sostrato salgono a volte umori e impulsi dissolutivi.
Ma lì, io credo, è depositata anche l’energia costituente, senza la
quale le élites rischiano di perdere i contatti con la vita reale. Il
destino del nostro continente è sospeso a tale consapevolezza e alla
risolutezza con cui saprà darle espressione».
IL SAGGIO Da fuori, di Roberto Esposito (Einaudi pagg. 256, euro 22)