Repubblica 23.3.16
La sfida all’occidente dei vendicatori frustrati
di Bernardo Valli
LA
PRIMA lettura è quella della vendetta. Una settimana dopo l’uccisione
del terrorista Mohamed Belkaid, e quattro giorni dopo l’arresto di Salah
Abdeslam, uno degli organizzatori della strage parigina del 13
novembre, i loro compagni li ricordano assassinando e suicidandosi.
Sferrano due attacchi micidiali a Bruxelles: a Zaventem, l’areoporto, e a
Maelbeek, la stazione della metropolitana nel quartiere delle
istituzioni europee. Nello scegliere i luoghi i jihadisti sono attenti. A
Parigi lo stadio e il Bataclan dove l’Europa si diverte. A Bruxelles
l’aeroporto e gli edifici frequentati da chi esprime l’Unione europea.
Forse sopravvaluto la volontà di scegliere dei simboli. Per i
terrorristi, il più delle volte cittadini europei, ovunque colpiscano è
Europa. La quale è per loro una detestata matrigna, dalla quale non si
sentono amati.
Più di trenta morti e più di cento feriti era il
prezzo da pagare per la morte di Belkaid e l’arresto di Salah. Quelli di
Daesh (l’acronimo di stato islamico in arabo) adesso esultano. E
rivendicano la strage. Missione compiuta. Per loro è una vittoria che la
capitale belga sia insanguinata e paralizzata, e che nelle altre
capitali si intensifichino le misure di sicurezza. Per lo “stato
islamico” quell’affanno dell’Europa ferita equivale a un riconoscimento
di fatto, strappato con la paura. Quando Parigi parla di guerra i
terroristi si considerano promossi. Si dichiara la guerra a una potenza
non a un’associazione di tagliagole. Si rafforzano le difese davanti a
un nemico capace di imporsi. Per Daesh è un successo essere considerato
tale.
È un ciclo infernale. Il principio strategico del terrorismo
è di piegare la volontà dell’avversario colpendo la sua capacità di
resistenza. Ma il jihadismo non ha nulla da negoziare. In Europa vuole
soltanto uccidere e uccidendo seminare la paura e intralciare i normali
ritmi della vita quotidiana. Dunque lo spettacolo del nostro continente
in affanno, costretto a imporre leggi speciali e a mobilitare sempre più
soldati e poliziotti, equivale per Daesh a una vittoria. La nostra
naturale reazione è per i terroristi il segno di una nostra sconfitta.
Gli
attentati di Bruxelles intensificano il ciclo infernale. Se una prima
lettura fa pensare a una risposta all’uccisione di Belkaid e all’arresto
di Salah, dunque a un sussulto di rabbia, a una strage per vendicare i
compagni, un’analisi realistica conduce a una conclusione più
inquietante. Non essendosi immolato come i compagni kamikaze, pare che
Salah non sia più considerato un degno militante di Daesh. Quindi non
meritevole di una strage per vendicarlo.
Ma appare soprattutto
chiaro che non si preparano in un paio di giorni azioni come quelle di
ieri mattina all’areoporto di Zaventem e nella stazione della
metropolitana di Maelbeek. Per trovare gli esplosivi e per armarsi di
kalashnikov con i poliziotti alle calcagna è necessaria
un’organizzazione ben articolata. Bisogna potersi muovere in un ambiente
volutamente distratto o favorevole o addirittura complice. Ci vuole
tempo. L’anno scorso sono state promosse in Belgio 315 inchieste negli
ambienti sospetti di terrorismo. I kamikaze di Zaventem e di Maelbeek e i
loro mandanti o complici sono sfuggiti all’attenzione di chi indagava,
poliziotti o magistrati. Dopo il 13 novembre parigino le misure di
sicurezza adottate sono apparse rassicuranti. Ma non sono bastate o
erano inefficaci. Non hanno comunque impedito l’esistenza di altre
cellule. Quante ne esistono ancora in Europa? Si calcola che circa
duemila persone siano disponibili per renderle operative. Questo è
inquietante.
Daesh perde terreno in Siria e in Iraq e si dice che i
suoi affiliati o emuli si diano da fare per animare il fronte europeo,
anche nel tentativo di dissuadere gli occidentali a intervenire in Medio
Oriente. Penso piuttosto che gli attentatori musulmani residenti in
Europa, e spesso con una nazionalità europea, agiscano in particolare
spinti dalle proprie frustrazioni. L’Islam jihadista è un richiamo a
portata di mano.
L’intelligence ha un compito difficile e gli
attentati riusciti a Parigi l’anno scorso e ieri a Bruxelles oscurano il
successo nel prevenirne tanti altri che erano in cantiere. Essa opera
in direzioni diverse, su terreni impervi: la guerra civile in Siria,
matrice dell’attuale jihadismo, il grande flusso migratorio, in cui
oltre al prevalente problema umanitario si nascondono aspetti meno
nobili, e la vasta comunità musulmana in Europa. Sui servizi di
informazione pesano inoltre le divisioni europee. Le quali ci rendono
vulnerabili. Nonostante le dichiarazioni, non esiste la volontà di
coordinare in modo permanente le varie intelligence nazionali. Gli
scambi bilaterali o una collaborazione a vasto raggio si intensificano
soltanto nei casi di emergenza. Altrimenti, come in politica estera e
nella difesa, ognuno vuol fare da sé. Parlare di mancanza di fiducia tra
partners( che pur condividono la moneta) è forse eccessivo. Esiste
tuttavia qualcosa di simile a una gelosia sciovinista che certo non
favorisce la lotta al terrorismo.
Le comunità musulmane in Europa
hanno più rapporti tra loro di quanto ne abbiano le intelligence
nazionali. Larga parte della popolazione araba, la stragrande
maggioranza, è rispettosa delle leggi del paese in cui è immigrata, e di
cui ha spesso la nazionalità. Ma è ai suoi margini, appunto tra i
giovani frustrati per mancanza di lavoro nelle periferie, che il
jihadismo europeo trova le sue reclute. Le leggi eccezionali per la
sicurezza, tendenti, ad affrettare per via amministrativa le azioni
dipendenti dalla magistratura (fermi, perquisizioni…) sono senz’altro
necessarie. Riguardando inevitabilmente le comunità musulmane scavano
però il solco della diffidenza e della frustrazione. Il lavoro di
intelligence è più discreto e essenziale. Sarebbe più efficace di quel
che è se fosse condiviso tra i paesi minacciati. Esiste anche, e
soprattutto, l’integrazione culturale. La sola capace di recuperare o
evitare i convertiti al jihadismo. Ma essa non riguarda la cronaca:
richiede tempi lunghi.