mercoledì 23 marzo 2016

Corriere 23.3.16
Massimo Ammaniti
«L’era dell’ansia perenne: il loro obiettivo è portarci alla paralisi»
intervista di Paolo Conti

Professor Massimo Ammaniti, famoso psicoanalista e psicopatologo: qual è il pericolo che corre l’inconscio collettivo dell’Occidente dopo questo nuovo attacco del terrorismo nel cuore dell’Europa?
«Il pericolo più ovvio è lo stesso osservato dagli esperti di psicoanalisi negli Stati Uniti dopo l’11 settembre: l’istinto di chiudersi in casa, il rifiutarsi di uscire per guardare ossessivamente le notizie in tv, l’isolarsi dalla vita quotidiana. Il fenomeno, studiato con attenzione, riguardò migliaia di persone. Si cade in una sorta di “evitamento passivo”, si evita cioè la ripresa della normalità e si lascia spazio alla paura e all’ansia...».
Sembra il progetto del terrorismo così come lo stiamo conoscendo.
«Non c’è dubbio. Il progetto dell’Isis è la paralisi dell’Occidente. Il piano è convincerlo della sua impotenza. Una vera guerra psicologica. L’obiettivo è bloccare l’economia che è alla base del nostro modello: in questo caso gli spostamenti legati agli affari, al turismo, allo studio, alla nostra vita quotidiana. L’aeroporto, la metropolitana».
Colpiscono i tempi, progettati in perfetto automatismo: l’arresto di Salah Abdeslam proprio a Bruxelles, immediatamente dopo l’atroce attentato.
«Anche qui il messaggio è trasparente. Avete compiuto mille sforzi per arrestare Salah, avete mobilitato tutte le polizie d’Europa, lo avete cercato ovunque, finalmente lo avete trovato e tirate un sospiro di sollievo con l’illusione di averci fermati... Invece ecco qui la dimostrazione che ci siamo. Tutto questo suscita un’ondata di paura, direi soprattutto di ansia molto forte, di terrore».
Lei distingue nettamente tra paura e ansia. In che senso?
«La paura è un’emozione motivata, nasce come reazione da una minaccia reale. Le bombe di Bruxelles hanno provocato una inevitabile paura collettiva. Ma poi, se non si controlla questa paura, si sfocia nell’ansia e nel terrore. Ovvero quella condizione in cui il timore è meno focalizzato su un dato oggettivo di realtà, e si allarga all’idea di un pericolo vasto, indistinto, non circoscritto. Quindi si vive in una condizione costante di allarme e di preoccupazione».
Quali sono i meccanismi “tecnici” alla base di questo?
«Il nostro cervello è una macchina ben organizzata. L’ansia è prodotta dall’amigdala, una sorta di relè che scatta in condizioni di pericolo. Ed è la parte più “antica” del cervello umano rispetto all’evoluzione. Poi ci sono le parti più “recenti” destinate alla capacità di autocontrollo e di programmazione, cioè le zone frontali e prefrontali. In casi di forte stress emotivo come questo si crea uno squilibrio “a favore” dell’ansia. L’importante è riuscire a controllare tutto questo».
Si dice sempre che il terrorismo si batte proseguendo il nostro stile di vita, difendendo il modello occidentale di convivenza e anche economico. Diventa sempre più difficile farlo. Come si batte l’ansia?
«Non è facile, ma è possibile. I neurobiologi parlano spesso della fisiologia dell’ansia e affrontano il problema di come trovare forme “pro-attive” per fronteggiarla, per non lasciarsi divorare da reazioni di passività, di rinuncia alla vita quotidiana, e qui torniamo al progetto dell’Isis. La migliore arma è fermarsi, guardare se stessi, centrarsi sulla propria personalità e ricorrere anche a qualche esercizio noto, per esempio, grazie allo yoga. Ovvero respirare profondamente, concentrarsi, dominare le ondate più emotive e irrazionali. Se di fronte a un pericolo io resto passivo e inerte, sarò in sua balìa. Invece se mi attivo, decido di fronteggiare l’ansia e di controllare le mie scelte, il pericolo resta certo, sta lì, ma diventa più chiaro il come fronteggiarlo. Penso sia fondamentale, a livello personale ma soprattutto a livello collettivo, riuscire a costruire strategie per contenere l’ansia. Di fronte a un terrorismo che costituirà purtroppo una futura presenza costante ci dobbiamo equipaggiare sia sul piano dell’intelligence e della tutela della nostra sicurezza che sul piano psicologico per non soccombere all’ansia».
E quale potrebbe essere un modello ideale di riferimento?
«Io ho in mente un’immagine legata alla Seconda guerra mondiale quando la Gran Bretagna guidata da Winston Churchill riuscì a fronteggiare la Germania nazista difendendo i propri valori. L’immagine riguarda il bombardamento di una biblioteca inglese e ci sono persone che, tra le macerie, cercano libri per leggerli. È una bellissima rappresentazione di ciò che si dovrebbe fare oggi»
In certi frangenti, si teme meno per se stessi e più per le persone care: figli, coniugi, amici. Per quale meccanismo?
«In una condizione di pericolo, tu sai bene dove sei e cosa puoi fare. Immaginare le persone care in un altrove indistinto, scatena paure profonde. Soprattutto quando si tratta di figli: li si pensa esposti per strada, a scuola o all’università, in viaggio. Ed è più che umano temere per loro».