martedì 22 marzo 2016

Repubblica 22.3.16
L’impossibile diventa reale
di Roberto Toscano

PROBABILMENTE la “profezia di Fidel” — secondo cui Castro avrebbe detto nel 1973 che un dialogo con gli Stati Uniti sarebbe diventato possibile «quando un nero sarà presidente degli Stati Uniti e un latinoamericano Papa» — è apocrifa. Più probabile è che si tratti di una barzelletta che circola a Cuba da tempi non sospetti: non un’azzardata profezia, ma piuttosto una battuta paradossale per definire quella prospettiva di dialogo come assolutamente irreale.
E invece l’impossibile è diventato reale, e a breve distanza dalla visita a Cuba del Papa argentino, è atterrato all’Avana un presidente afro-americano. È un presidente che ha lo stesso anno di nascita, il 1961, dell’autorizzazione del Congresso a imporre a Cuba un embargo totale. Una misura che mirava a indebolire il regime castrista e a indurre un cambiamento di regime, anche se con mezzi diversi da quelli messi in atto nello stesso 1961 col tentativo di invasione dell’isola da parte di esuli cubani armati e diretti dalla Cia. Obama ha deciso di recarsi a Cuba in quanto convinto che fosse insensato continuare dopo oltre mezzo secolo su una strada che aveva prodotto come unici risultati peggiorare le condizioni di vita dei cubani e fornire al regime la possibilità di scaricare su “l’imperialismo yankee” i propri fallimenti e le proprie magagne.
Questo inutile teatrino di ostilità aveva da tempo mostrato la corda, tanto più dopo che ormai da un quarto di secolo era venuto meno lo spettro della minaccia sovietica a poche miglia di distanza dalle coste della Florida. Per prendere atto della realtà serviva però coraggio politico, soprattutto per un presidente americano alle prese con l’ormai radicata egemonia estremista sulla maggioranza repubblicana nel Congresso.
Per i cubani la visita di Obama è un segnale di speranza. Perché è vero che Cuba è stata capace di resistere all’ostilità della superpotenza americana, ma il prezzo è stato un degrado economico non compensato dai pur ottimi livelli raggiunti nel campo della sanità e dell’istruzione, e nello stesso tempo il consolidarsi di un’élite politica rivoluzionaria di nome e conservatrice di fatto che da quella resistenza, capace di suscitare consensi sulla base di un orgoglioso nazionalismo, ha ricavato buona parte della sua legittimazione. Contrariamente a quanto sostiene chi critica il suo viaggio, Obama non è a Cuba per rafforzare il regime tardo-castrista, ma per togliere ogni alibi all’opprimente ristagno di un regime che, mentre è stato capace di sostenere la lunga guerra fredda con gli Stati Uniti, ben difficilmente riuscirà a resistere alla distensione.
Che sia proprio così lo dimostra lo scoperto tentativo dei dirigenti cubani di depurare gli effetti “benefici” della normalizzazione, sostanzialmente quelli in campo economico, da quelli “malefici”, come una prevedibile richiesta popolare di maggiore pluralismo politico. Ecco perché Raúl Castro non è andato all’aeroporto ad accogliere Obama, e perché il regime cerca di tenere sotto controllo entusiasmi che potrebbero risultare eccessivi dal punto di vista dell’ortodossia anti-imperialista. È una preoccupazione che aveva spinto Fidel — per cui questa visita davvero segna la fine di un’epoca — a commentare l’avvio della normalizzazione con un acido «io non mi fido della politica degli Stati Uniti». Un monito che presenta una significativa coincidenza con gli avvertimenti che non si stanca di formulare l’ayatollah Khamenei, preoccupato, dopo la conclusione dell’accordo nucleare, per i pericoli che una normalizzazione dei rapporti fra Iran e Stati Uniti può comportare per il regime iraniano. E che il regime non sia cambiato lo si vede da quanto scritto in questi giorni — con involontario umorismo — da un editorialista rigorosamente di regime: “ Il governo di Cuba è come un padre. Forte, ma preoccupato per la famiglia”.
Come dimostrano però gli arresti di dissidenti — tra cui numerose di quelle “Signore in bianco” che da anni protestano per la reclusione di propri congiunti per motivi politici — alla vigilia dell’arrivo di Obama, non si tratta soltanto di parole. L’intenzione è quella di trasmettere un avvertimento: non illudetevi, noi siamo ancora qui e non abbiamo intenzione di allentare il controllo.
Eppure l’entusiasmo dei cubani resiste nonostante tutto: quello che prevale è la speranza di un cambiamento graduale ma profondo. E non va trascurata un’altra ragione di entusiasmo, che dipende dal fatto che Obama a Cuba (a differenza dagli Stati Uniti, dove vige incontestata la regola sostanzialmente razzista che fa considerare nero chiunque abbia una goccia di sangue nero) è un mulatto proprio come lo è la stragrande maggioranza dei cubani. Non manca anche in questa occasione, come è nell’inconfondibile stile dei cubani, una grande capacità di smitizzare e ironizzare, come quella di una donna cubana che, quando un giornalista straniero le ha chiesto cosa pensasse della visita di Obama, ha detto di essere molto grata al presidente americano perché grazie a lui avevano finalmente riparato una enorme buca nel bel mezzo di una strada del centro dell’Avana.
Il processo di normalizzazione dei rapporti americano-cubani rimane comunque complesso e per molti versi problematico come è risultato chiaro dalla conferenza stampa congiunta al termine dei colloqui fra Obama e Raúl Castro, con il presidente americano che, pur ricordando che i cambiamenti non possono essere imposti dall’esterno, ha rivendicato il diritto di criticare la politica cubana in tema di diritti umani, e quello cubano che ha messo l’accento sui diritti sociali e non si è lasciato sfuggire l’occasione per chiedere il ritorno di Guantanamo sotto la sovranità cubana.
Rimangono interrogativi non secondari sull’irreversibilità del processo, sia per le riserve del regime dell’Avana che per l’opposizione di chi negli Stati Uniti rifiuta di prendere atto della fine dell’onnipotenza americana, che i cubani ebbero per primi la sfrontatezza di sfidare. Obama non lo ha certo nascosto quando ha ricordato che la rimozione dell’embargo, che si impegna a promuovere, richiederà il consenso della maggioranza del Congresso. Resta infine il più pesante degli interrogativi: il fatto che tra meno di un anno, comunque vadano le elezioni di novembre, arriverà alla Casa Bianca qualcuno sicuramente meno aperto al cambiamento di quanto non sia Barack Obama, un presidente che, come ha scritto ieri nel suo blog Yoani Sanchez, la più acuta fra i dissidenti cubani, porta nello stesso tempo “la gloria della popolarità e la croce delle eccessive aspettative”.
L’autore è diplomatico e scrittore, già ambasciatore in Iran e India