Corriere 22.3.16
Ma nell’Avana della Revolución Obama (per ora) non è l’eroe
di Giuseppe Sarcina
L’AVANA
 La prima staffetta sfreccia nel Paseo, il lungo viale che porta alla 
Plaza de la Revolución. Sono le 10 del mattino. Sta per passare il 
presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Il signor Narciso Melton 
Elia si affaccia al cancello del numero 654 Alto. Ha 77 anni, è un 
economista, ora pensionato: per molto tempo ha lavorato in Venezuela. È 
un figlio della Rivoluzione castrista, ma anche il custode involontario 
della memoria nazionale più profonda del Paese. Scosta la grata 
arrugginita e indica la facciata coloniale della sua casa: «Qui ha 
abitato Gonzalo De Quesada, uno dei discepoli più importante di José 
Martí». L’«apostolo Martí», il padre dell’indipendenza di Cuba (1898), 
come racconta in diretta la televisione nazionale. Tra poco Barack Obama
 deporrà una corona ai piedi del monumento «30 metri di scultura», dice 
con gravità lo speaker della tv.
Narciso, in tuta, si guarda 
intorno con cautela. E ha ragione: un giovane si è avvicinato, pensando 
di passare inosservato. Dalla cintura spunta una radiotrasmittente. È u n
 agente in borghese, uno delle centinaia di «chivatones» come li 
chiamano i cubani. Metà sorveglianti, metà spioni.
Il pensionato 
abbassa la voce: «Sono molto contento di vedere passare il presidente 
americano proprio qui davanti. Anche Martí sarebbe felice».
È 
l’inizio di un possibile percorso, emotivo e razionale nello stesso 
tempo, attraverso i luoghi legati al «Triunfo» della rivoluzione nel 
1959. L’Università dell’Avana, fondata nel 1728, è la matrice culturale 
del Paese. Qui negli anni Cinquanta uno studente divorava i gradini 
della lunga scalinata, avanti e indietro per convincere i compagni, 
organizzare «il movimento». Si chiamava Fidel, Fidel Castro. In cima, 
sotto le colonne, c’è una targa che riproduce il suo nome, scritto con 
il sangue da un combattente rivoluzionario ucciso a Giron, durante il 
blitz americano nella Baia dei Porci (1961).
«Castro studiava 
diritto», ricorda un giovane professore di diritto costituzionale. Si 
chiama Julio, ha 38 anni. All’inizio non vorrebbe neanche a parlare, 
comincia a elencare tutti moduli da compilare, le sedie da scaldare 
prima di accedere al pro-rettore. Ma perché siete tutti così sospettosi,
 così cauti? «No, no e che... ci sono le regole, comunque niente cognome
 ok?». D’accordo. Per un momento prevale il pensiero che non sia stata 
una buona idea insistere. Il professor Julio parte con il discorsetto 
ufficiale: «va bene il dialogo con gli Stati Uniti, purché non sia un 
attacco alla nostra sovranità, ai nostri principi, alle conquiste della 
Rivoluzione». Il verbo parte dal presidente Raul Castro, dai ministri, 
passa cento volte al giorno sulla televisione, sui giornali, arriva fino
 al corpo accademico e infine lo ritrovi per strada, chiunque sia 
l’interlocutore. Può essere la signora Caridad Pina, 77 anni, a spasso 
con il cane Tito poco lontano dall’Hotel Havana Libre, dove si insediò 
per alcune settimane la giunta rivoluzionaria guidata da Fidel. Può 
essere Diana, avvocatessa di 25 anni, incontrata davanti al Museo de la 
Revolución, dove i turisti vagano tra le reliquie dell’insurrezione, 
fino al «Rincón de los cretinos», dove sono raffigurate le caricature di
 Ronald Reagan, e dei due Bush, padre e figlio.
No, nessuno 
all’Avana considera Obama «un cretino». È stato accolto con rispetto, ma
 finora il calore che forse il presidente degli Stati Uniti si aspettava
 non si è visto. Intanto il professor Julio ha terminato il sermoncino. 
Ora, finalmente si può parlare. «Il problema è che Obama deve fare 
qualcosa di più, ha i poteri costituzionali per farlo. Altrimenti il 
processo di apertura rischia di fermarsi». A dieci metri, seduti sugli 
ultimi scalini, quattro studenti aspettano l’ora della lezione. 
Jordanis, 21 anni, Claudia, 22, Paolo 22, Nadine, 22. Sanno che Fidel si
 aggirava in queste aule. Conoscono la vicenda di José Antonio 
Echeverría Y Bianchi, «leader studentesco rivoluzionario, assassinato il
 13 marzo 1957» proprio sull’angolo dell’Università. Ma guardano avanti.
 Vorrebbero viaggiare di più, però non danno l’idea di essere 
incatenati. Dicono che ci sarà un futuro per loro, qui a Cuba. E allora,
 ultima tappa, verso la Grande Ombra che veglia su Cuba: il Che. Un 
«cocotaxi» si ferma nella calle 47, davanti a una casetta azzurra: 
turisti per la foto ricordo sullo sfondo dell’ultima residenza cubana di
 Ernesto Che Guevara. Il Comandante ci ha abitato dal 1962 al 1965 . 
Compare Diana Rodriguez, 24 anni, ricercatrice devota del Che: «Ci sono i
 carteggi tra Che Guevara e Kennedy che dimostrano come all’epoca si 
fosse avviato il dialogo. Credo che oggi il Comandante sarebbe 
soddisfatto, a patto che…» Certo, certo, a patto che non vengano 
minacciati «i principi irrinunciabili» della Revolución. 
 
