Repubblica 22.3.16
Perché il bisogno di giustizia è più forte del relativismo etico
Da
una raccolta di saggi d’autore dedicati a Gustavo Zagrebelsky una
riflessione sulle radici della nostra “voce della coscienza”
di Vito Mancuso
La
principale malattia spirituale del nostro tempo consiste
nell’incapacità di fondare nella coscienza l’imperatività della
giustizia, ovvero di rispondere al perché si debba sempre fare il bene e
operare ciò che è giusto anche in assenza di interessi, o addirittura
contro i propri interessi. Rimandando a Dio e ai suoi comandamenti,
l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa
sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza.
D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali
(giusnaturalismo, consensus gentium, formalismo, utilitarismo) è sì
capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza
dell’obbedienza; anzi, applicando la tolleranza al proprio io nella
pratica concreta, i soggetti trovano non di rado una comoda
giustificazione alla loro incoerenza rispetto all’imperativo etico.
Il
risultato è che oggi non si sa più rispondere al perché il bene
dovrebbe essere sempre meglio del male. Tale assenza di fondazione è una
grave minaccia che incombe sull’etica in quanto tale, perché in
mancanza di fondazione o c’è imperatività senza discernimento, come nel
caso del fanatismo, o non c’è imperatività e quindi non c’è etica, come
nel caso dell’utilitarismo opportunistico.
Dato che l’etica si
lega intrinsecamente al diritto, la crisi della sua fondazione si
traduce immediatamente nella crisi del concetto di giustizia, ovvero
dello stesso fondamento teoretico della filosofia del diritto. In questa
prospettiva Gustavo Zagrebelsky scrive significativamente di «nostra
ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia». Il diritto infatti o
è in grado di rimandare a un fondamento etico in base a cui mostrare
che ciò che prescrive è veramente diritto nel senso di retto, oppure non
può che risultare fondato ultimamente sul potere che dapprima
l’istituisce in quanto positum, e poi si cura di farlo rispettare
mediante la forza. L’alternativa è quella classica: è la verità o è
l’autorità a costituire la legge?
È noto il detto di Hobbes:
Auctoritas, non veritas, facit legem. Ma se si deve ammettere che questo
vale per la legge positiva, non ritengo che valga allo stesso modo per
il diritto sostanziale che precede e fonda la legislazione. L’autorità è
indispensabile per mediare il passaggio dalla sfera del diritto alla
sfera della legge, e in questo senso è giusto dire che senza autorità
non si avrebbe la legge (Auctoritas facit legem). Non per questo però è
lecito concludere che l’autorità sia anche la fonte sorgiva del diritto,
il quale al contrario precede l’autorità e la giudica, distinguendola
in autorità legittima e giusta a cui obbedire, e autorità illegittima e
ingiusta a cui ribellarsi (e quindi si potrebbe dire: Veritas facit
ius).
Se il diritto precede l’autorità, esso riceve il suo
fondamento nella coscienza, in particolare in quella forma della
coscienza etica che intende comportarsi in modo retto e giusto, e che
tradizionalmente si chiama etica. Torniamo quindi a quanto affermato
sopra, ovvero al fatto che l’odierna crisi dell’etica trascina con sé
anche la crisi della fondazione del diritto e la conseguente «nostra
ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia».
Tuttavia
esiste negli esseri umani un enorme bisogno di giustizia. La mancata
realizzazione di questo bisogno genera in essi malessere e risentimento
rispetto alla società, alla storia, alla condizione umana. La questione
si pone in modo radicale: quando parliamo di «fame e sete di giustizia
», quale dimensione dell’essere umano nominiamo? Io ritengo che il
fondamento dell’etica e il fondamento del diritto si leghino
intrinsecamente l’uno all’altro, e che la forza dell’uno sia la forza
dell’altro, e la rovina dell’uno la rovina dell’altro.
Esistenzialmente
la questione del fondamento dell’etica si traduce in una domanda molto
concreta: perché dovrei fare il bene e non il mio interesse? La mia
risposta è la seguente: si deve fare il bene per essere fedeli a se
stessi, perché è nel bene oggettivo che risiede il più grande interesse
soggettivo.
Che cos’è infatti il bene? Il bene nella sua essenza
peculiare è forma, ordine, armonia, relazione armoniosa. E che cosa
siamo noi? Siamo forma, ordine, armonia, un concerto di relazioni
armoniose: è grazie a questa dinamica, chiamata in fisica informazione,
che a partire dai livelli primordiali delle nostre particelle
subatomiche si formano i nostri atomi, i quali a loro volta, grazie
all’informazione che li guida, formano le nostre molecole, le quali a
loro volta, grazie all’informazione che le guida, formano gli organelli
alla base delle nostre cellule, le quali a loro volta… e via di questo
passo secondo una progressiva organizzazione che giunge fino alla
coscienza e alla personalità.
La logica che ci dà forma, che ci
in-forma, è la relazione armoniosa, e quindi praticare l’etica, in
quanto relazione armoniosa con gli altri e con il mondo, significa
essere fedeli a se stessi, alla nostra più intima logica interiore. In
questa prospettiva l’altruismo non risulta difforme da un retto egoismo
in quanto intelligente cura di sé. La fondazione dell’etica quindi è
fisica, basata su una filosofia che guarda alla natura con ottimismo e
favore, senza ignorare le numerose manifestazioni di caos e di disordine
che essa presenta ma riconducendole all’interno di un processo
complessivamente orientato alla crescita della complessità e
dell’organizzazione vitale, e che per questo sa che essere fedeli alla
natura e alla sua logica relazionale equivale a fare il bene, e di
conseguenza a stare bene, per la gioia che infallibilmente scaturisce in
ogni essere umano quando cresce la qualità delle sue relazioni.
Da
questa logica armoniosa dell’essere procede anche il richiamo al
rispetto della giustizia che tradizionalmente chiamiamo «voce della
coscienza».
IL LIBRO
Il costituzionalista riluttante (
Einaudi, a cura Andrea Giorgis, Enrico Grosso e Jörg Luther, pagg. 489,
euro 35) è una raccolta di saggi dedicata alla riflessione intellettuale
di Gustavo Zagrebelsky, in tutte le sue articolazioni: dalla democrazia
alla giustizia. Tra i numerosi contributi ci sono quelli di Ezio Mauro,
Enzo Bianchi, Luciano Canfora, Carlo Petrini, Nadia Urbinati. Questo è
un estratto del saggio di Vito Mancuso