martedì 22 marzo 2016

La Stampa 22.3.16
Oltre Boccioni sfiorando Picasso
A Milano, da venerdì a luglio, a Palazzo Reale una straordinaria mostra racconta la tormentata e onnivora formazione del pittore futurista
di Marco Vallora

E lui è lì a guardarci, con lo sguardo rapace e sfatto di viveur inappagato: più degli amori d’arte, che non della vita stessa. Con le occhiaie accalamarate d’interrogativi inquieti ed un’amarezza della vita, sfibbrata, che sale come una tormenta. Sulle gote, imbiancate di bianco sepolcrale, smarrito e pesto. Ad introibo di questa regale mostra, a labirinto, al Palazzo Reale di Milano, lì, a spiare beffardo ed irrequieto le nostre reazioni. La rassegna, puntuale nel suo centenario di morte, 1916, nasce con questo intento, un po’ intrusivo ma provvidenziale. Di frugare entro il suo tormentato laboratorio creativo, e scivolare, proditoriamente ma genialmente, fin entro le sue pupille. Colme di cultura, di riferimenti e di inappagamenti documentati.
Ha ragione Francesca Rossi, la curatrice (e “cucitrice” di tutte queste complesse trame di connessioni istituzionali, per una volta felicemente concordi, e convogliate nel volume Electa). Di mostre importanti su Boccioni, nonostante le difficoltà di prestiti, ce ne sono state molte e rilevanti, a partire da quella trafelata, subito a ridosso della sua scomparsa drammatica (un’accidentale caduta da cavallo, mentre infuriava la guerra e lui era volontario). Voluta dall’amico di una vita, la «caffeina d’Europa» Marinetti.
Poi la mostra centrale di Guido Ballo, con l’epocale allestimento «nudo» di Carlo Scarpa. Questa però è una mostra molto particolare, innovativa e originale, «non-italiana», per serietà ed attenzione filologica, ed insieme spettacolare e di studio. Grazie anche all’approfondimento del prezioso diario, convolato ahimè a Los Angeles, e tenuto del giovanissimo intellettuale, in un periodo nodale di sviluppo creativo. Incredibile: parrebbe riprodurre in facsimile le celebri lettere di Van Gogh, con disegnini-resumés strategicamente impaginati, accanto alla descrizione «ecfrastica» dei suoi esperimenti visivi. Soltanto che Van Gogh (che parrebbe averlo anche ispirato, per certe spettinate e materiche “Campagne lombarde”, così come in parte de Monticelli) dialogava scrivendo al fratello. Lui, introverso, scriveva in fondo a se stesso, alla sua solitudine, ricolma di richiami e d’imprestiti rapaci.
Ed ecco, ancora, l’altra sensazionale scoperta, che forgia la mostra: il rinvenimento, a Verona, di quelli che sono stati giustamente chiamati gli “Atlanti della memoria”. Richiamandosi a quelli, ormai fin troppo esaltati di Warburg, dopo anni di oblio. Sembra una forzatura, ma non lo è. Non solo perché Boccioni usa la parola-chiave di Mnemosyne, la Memoria madre delle Muse. Ma perché la sintassi è simile. Se Warburg studiava diacronicamente, nel tempo, la persistenza di certe «formule di pathos», dall’antichità, dalle Kore volanti, elleniche, sino agli svolazzi liberty delle coeve tenniste nizzarde, più sincronico Boccioni incolla su queste grandi tavole tutti i riferimenti che gli servono per affrontare la pittura, che presto sarà di movimento, anzi di dinamismo.
Attenzione, non si tratta banalmente di portare nell’arte soltanto la velocità e la corsa ma di eccitare il dinamismo energetico, di forze quasi esoteriche ed irradianti, in un momento in cui la scienza riflette alla rivoluzione dello spazio-tempo. Fonti le più diverse, che con enorme sforzo son state decifrate, reperite nei vari musei e trapiantate fertilmente in mostra. Così che accanto ad alcune tele imprescindibili, oltre ai sessanta magnifici disegni in progress, galoppanti verso l’astrazione, incunaboli di modernità, ri-studiati per l’occasione, al Castello Sforzesco, ecco che noi vediamo dal vivo e ripercorriamo, tutto quello che ha nutrito visivamente la sua golosa bulimia di soggetto bipolare. Insieme entusiasta ed attraversato però sempre da un’inguaribile insoddisfazione accidiosa.
Ma c’è qualcosa di simile anche nella loro bulimia revulsiva, come raccontava Gertrude Stein. Picasso è come un otre spagnolo, che si riempie di tutti i possibili riferimenti, e poi li vomita fuori, come nell’esplosione d’una granata. Boccioni, prima di condannare tutto come passatista, guarda al nordico Zorn (le pieghe voluttuose della sua bagnante «Freddolosa») guarda ai nordici morbosi come Redon o Rops, illustratore delle Diaboliche, ma guarda anche al Rinascimento, alle vetrate, ai cuoi, alla cosiddetta arte minore, perché gl’interessa carpire il segreto dell’animismo vitale, delle onde elettriche, quasi mesmeriche, delle pieghe dell’esistenza introversa.
Che provengano da Bistolfi, Segantini, o da Sattler, con quei funerei trampoli-compasso, che piangono lagrime d’inchiostro nerissimo, sulla pagina allegorica della Vita. E quanto sia importante l’influenza del Cubismo, poi, lo si evince da quella rubrica d’indirizzi parigini, in cui il nome di Arcipenko sostituisce quello, cancellatissimo, dell’amante maledetta Sibilla Aleramo. E a guardare contrapposti accanto, il volto, ancora divisionista, della Madre, 1906, con quello cèzanniamo e sbrecciato d’un altro olio materno, si capisce subito che lo choc si chiama Picasso. O non chiedeva forse il morente Boccioni, al «corripondente» Severini: informati, porta in Italia notizie di questo misterioso pittore spagnolo, che si chiama Picasso?