martedì 22 marzo 2016

Corriere 22.3.16
Terremoto Boccioni
L’arte e le sue distruzioni
L’uomo che non sapeva vivere senza creare movimento
di Roberta Scorranese

In Romanzo di una cucitrice , uno dei suoi primi dipinti (1908) c’è già una luce affilata e tagliente, come un invisibile preludio alla frattura; in Tre donne , dell’anno successivo, gli indizi si intensificano: la luce si divide in una serie di lame appuntite che sfidano la compostezza delle tre figure femminili, come ad annunciare la sottoscrizione del Manifesto dei Futuristi , che avverrà di lì a poco, nel 1910. Momento dal quale in lui le forme si scomporranno in una galassia di micro-movimenti, simbolo di una delle più ardite avanguardie italiane. Saturnino, fremente di una rabdomantica paura di morire, Umberto Boccioni è un esercizio enigmistico, dove ogni opera contiene gli indizi, le «istruzioni» per la sua fine e i germogli della fase successiva.
«Perché lui era così: diverso dal sereno amico Severini e dal solido maestro Balla. Boccioni era inquieto, oscillante», precisa Francesca Rossi che, con Agostino Contò, firma la mostra che celebra i 100 anni dell’artista a Palazzo Reale, risultato di un annoso lavoro di ricerca, tra i disegni custoditi dal Castello Sforzesco, l’ Atlante delle immagini (una poderosa e in gran parte inedita raccolta di ritagli e spunti collezionati dall’artista nato a Reggio Calabria nel 1882), i dipinti e le sculture. Una inquietudine, la sua, che scaturiva dalla consapevolezza dolorosa di vivere in un Paese immerso nel rassicurante liquido amniotico di un passato glorioso ma incapace di rinnovarsi. «Noi viviamo in un sogno storico: delizia dei forestieri che vengono qui a riposarsi ma fa fremere me al pensiero che gli storici del XX secolo non parleranno dell’Italia», scrive nei Taccuini (presenti in mostra).
Un’intuizione che infonde la musica segreta in tutte le sue opere, continua tensione verso un dinamismo che non è banalmente «movimento», ma è trasformazione, continuo reinventarsi attraverso la distruzione. Giovanissimo va a Roma, ma quella luce crepuscolare lo stanca. La lezione divisionista è cruciale, anche sul piano scientifico: dunque, tutto si può scomporre. Studia con Balla, non si stanca di osservare la sua rappresentazione della maternità: in mostra c’è la faccia gigantesca della Madre del maestro torinese che è come un «la» ritmico alla principale ossessione di Boccioni, la figura materna.
Un volto solido nella sua rassegnazione alle rughe, un corpo serenamente appesantito che verrà prima inondato di luce nordica (fondamentale l’influenza degli Impressionisti del settentrione come Anders Zorn, che la tenacia veneta di Rossi ha scovato e portato a Milano) in Nudo di spalle e poi smontato nel gigantesco Materia del 1912. Ma anche questa figura imponente in mostra, che racchiude le vibrazioni coloristiche del Divisionismo, le tracce espressioniste (le grosse mani intrecciate) e le spie del Cubismo, nella rappresentazione simultanea dei lati del volto, anche questa opera che a Palazzo Reale pare minacciare alle spalle la piccola testa dell’ Antigrazioso , reca traccia di una invisibile ma imminente autocombustione: Boccioni non si accontentava.
«Era uno che non smise mai di studiare, di approfondire temi di ogni tipo, dalla filosofia alla storia dell’arte fino alla chimica e alla fisica», conferma Rossi. E lo studio combinato dei libri di John Ruskin, durante il soggiorno veneziano, le lunghe ore trascorse a osservare il Monumento equestre al Gattamelata di Donatello, nella sua permanenza a Padova, e la ricerca incessante delle radici scientifiche delle cose, lo portarono a un punto estremo, alla definizione più compiuta e precisa del termine «movimento», dove «un cavallo in movimento non è un cavallo fermo che si muove, ma è un cavallo in movimento, cioè un’altra cosa», scrisse.
Uno stato nuovo delle cose, nato dall’esplosione — necessaria — del precedente. Dinamismo di un corpo umano e Forme uniche della continuità nello spazio , entrambi del 1913, arrivano così a questo punto della mostra non come un inizio, ma come il risultato di traiettorie imprevedibili, che hanno attraversato i movimenti italiani di fine Ottocento, le suggestioni parigine, le ricerche nordiche, le scoperte scientifiche, le rivelazioni della psicanalisi appena nata.
Quello che non finisce, in questo artista così affascinato dal dinamismo e morto a causa di un cavallo indomito, è la paura (fremente, quasi tangibile) non tanto della staticità quanto dell’assenza di movimento. Che, come ci ha insegnato, sono due cose diverse.
rscorranese