Repubblica 22.3.16
Il Cristianesimo sulla via dell’Oriente
Dalla
leggenda del Gesù fuggito in India alle dottrine che si diffusero in
Asia. Nuovi studi per rileggere la storia della religione da Est
di Silvia Ronchey
«Crediamo
in un solo Signore Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio, che fu
crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto e il terzo
giorno risuscitò, secondo le Scritture»: così della natura e vicenda di
Gesù recita il symbolum fidei niceno-costantinopolitano del 381. Ma la
storia di morte e resurrezione tramandata dai Vangeli e riflessa nella
formula di fede che consideriamo fondante, almeno in occidente, per la
dottrina di ciò che chiamiamo “il” cristianesiasimo,
non era stata
in origine, né sarebbe stata in seguito, interpretata allo stesso modo
da tutti. Per esempio, secondo una curiosa versione orientale, Gesú non
morì sulla croce. Si limitò a svenire. Quand’era già nel sepolcro si
riprese, fu curato dai discepoli e fuggì, sulle orme di Alessandro
Magno, in India. Qui, dopo una lunga vita di predicazione, si ritirò
sulle montagne del Kashmir e morì centenario nel distretto dei laghi
ancora oggi famosi per le loro case galleggianti, dove sarebbe tuttora
sepolto. Mirza Ghulam Ahmad, il fondatore della setta islamica indiana
detta appunto Ahmadiyya cui si deve questo racconto, alla fine
dell’Ottocento riconobbe il nome di Gesù (che normalmente è Yassou nella
resa arabo cristiana, mentre ‘Isa è la dizione musulmana usata nel
Corano) nell’appellativo Yus Asaf inscritto in una cripta di Srinagar,
su una tomba di origine buddista o induista, che nel XIV secolo, con
l’invasione islamica della zona, era stata riorientata verso la Mecca e
fu cantata dal poeta sufi Muhammad Azam Didamari.
Quest’eresia
bizzarra e sincretistica, recente e ancora oggi piuttosto seguita
seppure ripetutamente sconfessata dall’islam ortodosso, è solo l’ultima,
e certo la più estrema, di una comunque lunga e variegata linea di
narrazioni asiatiche del Cristo, che si svilupparono da una visione
della vicenda neotestamentaria difforme da quella cristiana ortodossa ma
molto più diffusa di quanto si creda: la visione nestoriana, che
all’inizio del IV secolo negò l’interpretazione divina della sua figura e
la cosiddetta “unione ipostatica” della sua doppia natura umana e
divina così come sarebbe stata ratificata dalla teologia dei concili di
Efeso, che condannò come eretica la versione di Nestorio, e poi di
Calcedonia, che condannò sia il nestorianesimo sia l’eresia inversa, il
monofisismo, emettendo un suo credo in cui riconosceva in Cristo «due
nature senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza
separazione ».
Entrambe le dottrine condannate nel V secolo si
affermarono però in quel grande e primario bacino di diffusione del
cristianesimo che furono il Medio Oriente, l’Africa e l’Asia, e lì
prosperarono e diedero luogo a una molteplicità di fioriture, in cui il
cristianesimo, nella meno ardua versione dottrinaria che ne fornivano,
poté ibridarsi più facilmente sia con le religioni preesistenti – lo
zoroastrismo, il manicheismo, il buddismo, il taoismo – sia con altre
varianti del ceppo monoteistico giudaico e in particolare con quella che
si sarebbe prepotentemente affermata di lì a poco: l’islam. A queste
efflorescenze dottrinali che si inanellarono lungo la via della seta
fino all’India e alla Cina, ma soprattutto alla lunga, complessa e per
lo più proficua coesistenza testuale e intellettuale, oltre che
spirituale, tra cristianesimo e islam, è dedicato il notevole libro di
Philip Jenkins, La storia perduta del cristianesimo. Il millennio d’oro
della Chiesa in Medio Oriente, Africa e Asia ( V- XV secolo),
ora
tradotto in Italia, con prefazione di Giancarlo Bosetti (EMI, pagg. 352,
euro 22), che partendo dalla sconfinata avventura della predicazione
nestoriana ripercorre la storia del cristianesimo, dall’età dei concili
al XV secolo, in un’ottica euroasiatica e antieurocentrica; traendo a
volte conclusioni paradossali e discutibili, porgendo talora deduzioni
storiche immotivate o eccentriche, ma fornendo una profusione di
materiali e dettagli utili ad arricchire le nostre conoscenze sul
passato di quell’unica civiltà euroasiatica da cui è espressa non solo
la cultura che chiamiamo tout court occidentale, ma anche l’identità
religiosa che a volte troppo drasticamente chiamiamo a
contraddistinguerla.
“Povero nestoriano smarrito” si definiva
Eugenio Montale in Iride, evocando “il Volto insanguinato sul sudario”
nel miraggio di luce di un altro continente. C’è un’esitazione, uno
smarrimento, anche all’inizio del lungo viaggio che la storia di Cristo,
uomo, dio, profeta, bodhisattva, compie per le strade dell’est,
anzitutto dell’Arabia e della Persia. Un gioco di specchi vede le
varianti orientali del cristianesimo riflettersi nello splendore delle
prime grandi corti califfali. È nella Baghdad delle Mille e una notte
che la dialettica del katholikòs Timoteo, primate della chiesa
nestoriana sotto gli abbàsidi, poté incrociarsi, alla fine dell’VIII
secolo, con la proverbiale moderazione del califfo al-Mahdi. È in un
leggendario – probabilmente posteriore e spurio – dialogo tra i due che
si incastona la celebre parabola della perla: «Se di notte, in una casa
buia, cade una perla preziosa, tutti cercheranno di raccoglierla, ma a
uno solo toccherà. Gli altri stringeranno chi un pezzo di vetro, chi una
pietruzza o un grumo di terra, ma tutti saranno felici e orgogliosi e
si sentiranno i veri possessori della perla». La perla della vera fede è
caduta nel mondo mortale, dove non è dato distinguere chi la possieda
realmente. Tutte e tre le religioni del libro ritengono di possederla,
ma la verità finale non può essere nota a questo mondo di tenebra.
Se
la devianza cristologica del nestorianesimo rendeva il versante
islamico del monoteismo più permeabile al beneficio del dubbio, la forza
culturale della sua predicazione gettava i suoi germi verso le terre
dei turchi e dei mongoli. Nelle rotte dei mercanti sogdiani, tra il
Khorasan e la Transoxiana, lungo le vie carovaniere, la narrazione
cristiana era moneta sonante: «Viaggiate ben cinti come i mercanti / per
farmi guadagnare il mondo», scandisce un inno nestoriano. La fioritura
era così ibrida, così stretto il dialogo transconfessionale, da indurre
Jenkins a vedere nel nestorianesimo dell’età di Carlo Magno un
superstite della grande “era assiale” in cui si formarono le religioni
mondiali postulata da Karl Jaspers.
Se, grazie anche a queste
forme di predicazione più adattabili e flessibili, eclettiche ed
eterodosse, l’oriente fu il bacino primario di diffusione del
cristianesimo, l’Europa ne fu, sostiene paradossalmente Jenkins, un
alveo di deflusso secondario, meno importante e solo inopinatamente
sopravvissuto, per fattori contingenti, alla snaturante collaborazione
tra chiesa e stato. «Spettro del defunto impero romano che siede
incoronato sulla sua tomba» secondo la definizione di Thomas Hobbes, il
papato, nella sua deriva di intolleranza teocratica, fu ulteriormente
spalleggiato dalla violenza dei sacri romani imperatori. Come suggerì
Teodoro di Beza, successore di Calvino al tempo della strage di san
Bartolomeo, «la chiesa è un’incudine che ha consumato più del martello».
Dal massacro dei sassoni di Carlo Magno a quello dei catari sotto
Innocenzo III, la “spada di Costantino” – è stato sottolineato da molti
dopo gli accenni all’”originaria” violenza islamica nel discorso di
Ratzinger a Ratisbona del 2006 – non fu certo meno violenta di quella di
Maometto.
Oggi le parti si sono, almeno in apparenza, rovesciate.
A rivendicare il titolo dei tolleranti califfi è la barbarie
terroristica dell’Is, che manipola l’ideologia religiosa per mistificare
e distruggere il passato. Ma, se come scrive Jenkins «la migliore
ragione per studiare sul serio la storia è che praticamente tutti usano
il passato nelle discussioni quotidiane», il passato non ha un solo
volto.
E la storia, scriveva Maxime du Camp, «è come Giano: che guardi il passato o il presente, vede le stesse cose».