Repubblica 21.3.16
Il caso.
Ventidue sigle, nessun 
leader, ma si ritrovano a ogni comizio di The Donald. Una cosa che non 
si vedeva dagli anni ‘60. Che finora però ha fatto gioco al miliardario
Latini, gay, neri e reduci di Occupy il popolo della rabbia anti-Trump
di Vittorio Zucconi
WASHINGTON.
 Si ritrovano, un po’ emozionati e commossi, come reduci e reclute di 
tutti i movimenti, scossi dal torpore per mobilitarsi attorno al nome 
che li accomuna nello sdegno e nella ribellione: Donald Trump.
Lungo i vecchi fili del passaparola che furono tessuti a Zuccotti Park da Occupy Wall Street
e
 le nuove fibre ottiche della Rete che li chiama a raccolta via Facebook
 e Twitter, i militanti del Dump Trump, scaricate Trump, stanno agitando
 i teleschermi, i comizi e ora anche le strade, dall’Arizona alla Quinta
 Avenue di Manhattan. Tentano, senza soldi nè sponsor, di fare quello 
che i mandarini del Partito repubblicano non sono riusciti a fare con i 
loro milioni buttati su Bush, Rubio, Carson, Kasich e ora Cruz. Tutti i 
cavalli travolti dallo tsunami Donald Nessuno sa quanti siano, ma si 
vede che crescono di numero e spuntano ormai ovunque appaia la nuvola 
dei capelli biondo-rossicci dell’irresistibile pifferaio della rabbia 
bianca appaia: in poche unità isolate o in gruppi organizzati come 
nell’auditorium della Illinois University di Chicago. Non hanno un 
leader, né punti di riferimento, sparpagliati come sono tra le 22 
organizzazioni che hanno firmato e pubblicato su moveon. org, il sito 
cupola di tutte le proteste antisistema, una lettera per mobilitarsi e 
fermare
The Donald. Ben Winkler, direttore della sezione di 
Washington di moveon. org, parla di «movimento organico», cresciuto 
spontaneamente con l’intenzione di raccogliere chiunqe, Repubblicano, 
Democratico, Indipendente, maschio, femmina «voglia fermare questo 
impostore razzista che spaccia odio e predica violenza, minacciando di 
distrugere l’America che amiamo».Sono patrioti, dunque, nella 
declinazione di quella stessa parola, «patriottismo», che i Trumpistas 
leggono come un grido di esclusione per rifare l’America Grande, 
messaggio che tutti leggono come «Rifare l’America Bianca». Ci sono i 
latinos del Puente, che si battono contro i muri per costruire invece 
ponti. I militanti Lgtb che ormai sono Lgbtqia, avendo aggiunto a 
lesbiche, gay, trans e bisessuali anche gli indecisi.
Accorrono 
gli afroamericani di Black Lives Matter, le vite dei neri contano, 
scatenati dopo l’assassinio di Michael Brown a Ferguson nell’agosto del 
2014. I revenant di Occupy Wall Street, un po’ dispersi e appassiti dopo
 la grande fiammata seguita al disastro del 2008. Le nuove lobby di 
musulmani nati a Detroit, la città con più fedeli dell’Islam negli Usa, 
naturalmente i Musulmani neri, con l’eccezione del razzista alla 
rovescia Louis Farrakhan e gli hacktivisti di Anonymous, che hanno 
promesso di attaccare il sito di Trump e i suoiprofili sui social, come 
Twitter dove lui conta, autentici, comperati o robotizzati che siano, 
oltre 7 milioni di seguaci. Ai quali scrive, o così dice, personalmente 
prima di dormire «in pigiama da letto».
È «un intruglio delle 
streghe», rispondono i Trumpistas dal sito e radio di Breitbart News, 
gridando che sono «agitatori professionisti», «specialisti del caos», 
«nemici della democrazia» che vogliono impedire alla maggioranza di 
esprimere la propria preferenza. E tra le migliaia di militanti di 
questo ancora embrionale movimento di “ Occupy Trump” si ripropone 
naturalmente l’eterno dilemma della militanza rumorosa contro la 
maggioranza silenziosa che vota, alla quale oggi The Donald 
esplicitamente si rivolge, riesumando il più classico degli slogan 
nixoniani anni Sessanta.
Manifestazioni di protesta, striscioni 
srotolati a sorpresa durante i comizi, «disturbatori», come li definisce
 Trump che non li considera neppure contestatori, non sono una novità 
nelle campagne elettorali. Ma la crescita e la diffusione di questo 
informe, eppure bollente, «intruglio delle streghe», capace di colpire 
contemporanemente sulla Quinta di Manhattan, nelle strade dello Utah, 
nel centro di Chicago e sulle autostrade a sei corsie dell’Arizona 
incatenandosi alle auto piazzate per bloccare l’accesso al comizio di 
Trump, rappresentano qualcosa che dagli anni Sessanta non si era più 
visto, certamente non in modo così mirato.
Come sta coagulando la 
rabbia della piccola e media America bianca per sè, così Trump sta 
generando l’aggregazione delle altre, delle molte Americhe in sonno, ma 
non morte, che si svegliano contro di lui. C’è chi sospetta il cinico 
Machiavelli che guida la sua campagna elettorale, Corey Lewandowski, di 
provocare deliberatamente il risveglio dei frammentati movimenti di 
protesta, per sfruttare quello che in Italia è il classico dei “centri 
sociali”, accusati dai politici di Destra per spaventare gli elettori 
moderati. Lo stesso Lewandowski è stato accusato da una cronista 
accreditata di averla presa per il collo e strapazzata, per impedire di 
fare domande.
La questione del cui prodest, di chi tragga 
giovamento dalle rivolte di piazza e dalle contestazioni resta aperta, 
come sempre. Per ora, è il formidabile istrione Donald che ne sta 
approfittando, avendo trasformato le interruzioni e le disturbances ai 
suoi comizi in una gag fissa, coronata dal suo grido Get ‘ em out, 
ripetuto con il dito puntato, «Buttateli fuori», «Tornate dalla mamma», 
«Cercatevi un lavoro».
Per ora, sono poco più di un side- show, un
 siparietto nel dramma di una stagione elettorale americana imprevista e
 ancora imprevedibile. Ma in fondo alla strada, nell’afa soffocante di 
Cleveland sulle rive del lago Erie, c’è lo spettro della convention 
repubblicana di luglio.
E il ricordo di un’altra estate rovente in
 città sui Grandi Laghi, la Chicago del 1968. Sarà Cleveland la 
Gerusalemme dei conti finali tra la piazza e il palazzo occupato dai 
trumpistas?
 
