lunedì 21 marzo 2016

Repubblica 21.3.16
Il retroscena.
Cinesi ed europei contendono la torta del business e la comunità vuole la sua parte
Da nemici di Fidel a lobby pro Cuba la svolta degli esuli a caccia di affari
di Federico Rampini

La Starwood è la prima compagnia che ha annunciato un accordo Ma dietro c’è Pechino Pesa ancora la rigidità del Congresso Servirà un altro voto per la fine dell’embargo
Appare lontano l’aprile del 1961 passato alla storia come l’invasione della Baia dei Porci: il tentativo fallito da parte degli esuli cubani, addestrati dalla Cia, di conquistare Cuba

L’AVANA. Attenti a quei tre. Andres Fanjul, Carlos Gutierrez, Carlos Saladrigas. Saranno mescolati nella folla di imprenditori che oggi ascolta Barack Obama all’Avana, nella conferenza economica
Discussion on Entrepreneurship alla Cervecerìa del Puerto.
L’evento è importante come ogni tappa di questa visita storica: un presidente statunitense nero e di sinistra viene a portare il Verbo capitalista nella terra della rivoluzione. Ma quei tre cognomi sono importanti per un’altra ragione. Fanjul, Gutierrez e Saladrigas sono arrivati apposta da Miami. Sono esponenti di tre famiglie della diaspora cubana in Florida.
Dopo la fuga dal castrismo, i cubani della Florida furono per mezzo secolo una roccaforte di destra. Animati dall’avversione al comunismo, dalla voglia di rovesciare il regime, da sogni di rivincita. Spesso avevano lasciato alle spalle delle ricchezze espropriate; certamente tanto rancore. Negli Stati Uniti votavano repubblicano e si opponevano ad ogni disgelo con Cuba.
È per compiacere loro che Ronald Reagan cancellò la prima apertura avvenuta all’epoca di Jimmy Carter: l’embargo revocato dal presidente democratico nel 1977 fu ripristinato dal suo successore repubblicano nel 1982.
Fanjul, Gutierrez, Saladrigas, tre cognomi che in Florida tutti conoscono, fortune capitalistiche legate al business dello zucchero, all’agroindustria, alla finanza e all’immobiliare, sono tre esponenti di una clamorosa conversione. Da anti-castristi a lobby pro-Cuba, hanno offerto una sponda preziosa a Obama. Senza di loro forse il disgelo non sarebbe stato possibile, o non così rapido.
Quattro giorni prima di partire Obama ha radunato alla Casa Bianca un folto gruppo di questi imprenditori, molti dei quali ritroverà oggi alla conferenza dell’Avana. C’erano anche Emilio Estefan e Mike Fernandez, Ariel Pereda e Ric Herrero: gotha del capitalismo cubano- americano. Che ha maturato la svolta 15 anni fa, con la creazione di nuove lobby come il Cuba Study Group, o l’associazione confindustriale Engage Cuba Business Council.
Non è che questi ambienti della diaspora abbiano cambiato idea sulla rivoluzione castrista; la loro svolta è avvenuta sui metodi per superarla. Il loro pensiero si può riassumere così: l’embargo non ha funzionato, forse ha rafforzato il regime; con l’apertura e il boom di investimenti capitalisti nell’isola è più probabile che qualcosa cambi. Il loro cambio di strategia rispecchia un’evoluzione di tutta la comunità cubana d’America. Già nel 2012 Obama ne fu il beneficiario: primo presidente democratico a conquistarsi la metà dei voti tra i cubani-americani (una comunità di due milioni), una svolta impensabile ai tempi di Carter o Clinton.
Oggi quello spostamento è ancora più marcato. Il ceto politico di origini cubane continua a esprimere degli ultrà di destra come Ted Cruz, ma già Marco Rubio aveva abbozzato una linea più moderata. Alla base l’evoluzione è marcata. Un censimento della Florida University rivelò che già nel 2014 i cubani-americani favorevoli all’embargo erano scesi sotto la metà, dopo avere sfiorato punte del 90 per cento all’epoca di Reagan. E con loro ha cambiato parere l’insieme dell’opinione pubblica Usa.
L’istituto demoscopico Pew Research Center nel luglio 2015 ha trovato un 73 per cento di favorevoli alla riapertura delle relazioni. Dopo essere stati a lungo una «minoranza di blocco», con una sorta di diritto di veto contro ogni dialogo con L’Avana, oggi i più influenti businessmen di Miami hanno il problema opposto: l’ansia di non arrivare troppo tardi.
Al loro atterraggio con la delegazione di Obama ieri all’aeroporto José Martì li accoglieva un sinistro presagio. Gli autobus che trasportano i passeggeri dagli aerei al terminal esibiscono vistosi ideogrammi in mandarino sulle portiere: sono tutti made in China. L’annuncio del primo accordo tra il governo cubano e una grande catena alberghiera americana, la Starwood dei marchi Sheraton e Westin, si è trasformato in una beffa: la Starwood ha appena accettato di farsi comprare da una compagnia assicurativa cinese.
Anche gli europei — Francia e Spagna in testa — sono molto più avanti delle società Usa nello stabilire avamposti di penetrazione a Cuba. Sul business made in Usa pesa ancora la rigidità del Congresso. Obama ha potuto liberalizzare alcune cose — voli diretti, servizio postale, carte di credito, telecom — ma il grosso dell’embargo fu recepito in una legge e richiede un altro voto al Congresso.
La campagna elettorale non è il momento migliore per parlarne. I repubblicani s’irrigidiscono sulla linea antica accusando Obama di aver «ceduto tutto ai fratelli Castro senza ottenere in cambio nulla».
Lui è convinto di avere imboccato una strada da cui non si tornerà più indietro.