Repubblica 21.3.16
John Dalhuisen.
Il direttore di Amnesty International per l’Europa: “Serve la solidarietà obbligatoria”
“Un errore quell’accordo la Turchia non rispetta le leggi sui diritti umani”
La politica non può arretrare di fronte al populismo: Merkel e pochi altri hanno una visione basata sui valori comuni
intervista di Francesca Caferri
«UN
 COLPO di proporzioni storiche ai diritti umani». Amnesty International 
usa termini durissimi per condannare l’accordo appena siglato fra Unione
 europea e Turchia sulla gestione della crisi del rifugiati. John 
Dalhuisen, direttore dell’organizzazione per l’Europa e l’Asia centrale,
 spiega perché.
Cosa c’è che non va in questo accordo?
«Molte
 cose. La prima è l’idea stessa che ne è alla base, ovvero che la 
Turchia possa essere un luogo sicuro per i rifugiati: stiamo parlando di
 un paese che in questa materia non rispetta né le leggi internazionali 
né gli standard europei. Per diverse ragioni: prima di tutto, perché non
 esiste un sistema davvero funzionale per ottenere lo status di 
rifugiato. Possiamo contare sulle dita di poche mani gli iracheni e gli 
afgani che, ben prima dell’inizio della crisi siriana, sono riusciti a 
ottenere lo status di rifugiato in Turchia dopo anni di attesa. In 
secondo luogo, non considererei sicuro un luogo dove oggi migliaia di 
bambini siriani, per prendere questo come standard, non possono andare a
 scuola. In terzo luogo ci sono centinaia di siriani che sono stati 
respinti al confine dalla Turchia, rimandati indietro verso le zone di 
provenienza, dove c’è la guerra».
Che soluzioni alternative avrebbero potuto esserci, secondo voi?
«Riguardo
 alla Turchia, è necessario che la Ue usi tutta la sua influenza perché 
questo paese ampli in tempi rapidi lo spazio di protezione per i 
rifugiati: servono norme migliori, ma anche più garanzie in termini 
reali, quando queste persone si trovano a chiedere assistenza o asilo. 
Parlando invece dei membri Ue, è necessario insistere sul principio 
della solidarietà obbligatoria. Questa crisi non riguarda pochi paesi: 
tutti devono farsene carico tramite i programmi di smistamento dei 
rifugiati».
Questo tentativo è stato già fatto però: e non ha funzionato.
«Nel
 lungo periodo il dibattito pubblico è cruciale: i cittadini europei 
devono capire, e qui una grossa responsabilità è dei media, che o da 
questa crisi si esce insieme o l’idea stessa di Europa cade a pezzi. Nel
 breve periodo è chiaro che di fronte al muro dei paesi dell’Est, 
spetterebbe a poche nazioni fare il lavoro maggiore: penso a Germania, 
Olanda, Francia e ai paesi scandinavi, oltre che a quelli direttamente 
coinvolti dagli sbarchi. È stato così anche negli anni Novanta, quando 
dai Balcani arrivò un numero di persone ben più alto di quello che 
vediamo giungere ora. E furono accolti».
Cosa c’è di diverso tra l’Europa di allora e quella di oggi?
«Era
 un’Europa pre-11 settembre, meno spaventata. Un’Europa ottimista, non 
ancora travolta dalla crisi economica. Oggi molta gente pensa che stiamo
 ammettendo delle persone fondamentalmente diverse da noi, che non sono 
assimilabili, che arrivano per cambiare il nostro modo di vivere. È un 
pensiero che porta alla crescita dei populismi».
Proprio questo è 
uno degli elementi chiave per capire l’accordo con la Turchia: secondo 
molti leader è necessario fermare i profughi per fermare il populismo. È
 un’idea sbagliata?
«Non diciamo che le cose siano semplici. Ma 
l’Europa sta mettendo in gioco la sua anima. Accogliere queste persone 
oggi costa molto ed è difficile: lo sappiamo benissimo. Ma se non lo 
faremo fra 15-20 anni ci guarderemo indietro e ci chiederemo come 
abbiamo potuto lasciare che questo accadesse. La politica non può 
arretrare di fronte al sentimento populista: la Merkel e pochi altri 
hanno provato a spingere una visione europea basata sui valori comuni, 
tanti altri hanno ceduto il passo».