Repubblica 16.3.16
I diritti negati alle mamme
di Chiara Saraceno
PER
le donne sembra non ci sia mai il momento giusto per dedicarsi al
lavoro, alla politica, all’impegno sociale, al perseguimento di un
interesse. Se non hanno figli potrebbero tuttavia averne in un prossimo
futuro; quindi sono considerate un rischio per i datori di lavoro. Se ne
hanno di piccoli, sono inaffidabili perché devono occuparsi di loro. Se
ne hanno di adolescenti, è bene che non li perdano di vista perché
potrebbero mettersi nei guai.
Gli uomini invece no, possono
dedicarsi anima e corpo al lavoro, alla politica, o a qualsiasi altro
interesse, anche se hanno figli. Forse è per questa visione ottocentesca
condivisa ancora da troppi uomini italiani, specie a capo di aziende o
in politica, che l’organizzazione del lavoro è così ostile alle mamme
lavoratrici, si investe così poco nei servizi, gli orari delle
organizzazioni politiche e sindacali sono così difficili da conciliare
con la vita e le responsabilità familiari, per le donne e per gli
uomini. Se anche i padri si occupassero di più dei figli, forse
penserebbero a modelli organizzativi più ragionevoli. Avviene già in
altri paesi, dove non a caso si vedono anche più donne, anche mamme, in
politica e a dirigere aziende. E dove i padri prendono qualche mese di
congedo per stare con i figli piccoli.
In Italia invece c’è chi,
non avendo mai lontanamente pensato di fare una cosa del genere e
neppure, avendone il potere (da premier, oltre che come capo di
aziende), ha mai fatto nulla per facilitare la conciliazione tra lavoro e
vita familiare, si permette di dare consigli su come dovrebbe
comportarsi una vera madre. Tra l’altro, sembra che ogni figlio di donna
in politica (o comunque in carriera) nasca orfano di padre. La presenza
di questi non è prevista come adeguato sostituto della madre nelle ore o
giorni in cui questa non potesse essere accanto al piccolo. Quanto al
congedo di maternità, evocato da Berlusconi come impedimento alla
candidatura di Meloni, è un diritto duramente conquistato dalle donne
lavoratrici, per proteggerne la salute, dare loro tempo con il neonato,
non esporle al rischio di licenziamento. Ma non le esime, per lo più,
dal lavoro domestico e dalla cura dei figli, se ne hanno già altri. E
molte libere professioniste o artigiane, per necessità o scelta, non
abbandonano del tutto il lavoro anche durante il congedo. Ho il sospetto
che lo stipendio da parlamentare, ma anche da sindaco di una grande
città, consenta di delegare ad altri il lavoro domestico e anche parte
della cura del neonato, a differenza di quanto avviene per molte madri
lavoratrici. Decidere di assumere un impegno gravoso durante la
gravidanza e dopo il parto può essere una scelta che si può o meno
condividere individualmente, non da impedire o dichiarare impossibile.
È
vero che la prima ad alludere ad una incompatibilità tra maternità
imminente e candidatura a sindaco era stata proprio Giorgia Meloni,
quando ha utilizzato il palcoscenico del Family day, con i suoi slogan
sulle nette distinzioni tra padri e madri, per annunciare di essere
incinta. È probabile, tuttavia che, al netto della strumentalizzazione
della circostanza per accreditarsi in quell’elettorato, Meloni si
riferisse a un suo personale, comprensibile, desiderio di godersi
gravidanza e primi mesi di vita del bambino, senza imbarcarsi in una
impresa indubbiamente faticosa, non ad una impossibilità, o incapacità a
tenere insieme le due cose. E in effetti, anche prima di decidere di
candidarsi, non ha smesso neppure un giorno la propria attività
politica, dando anche più di un indizio che, forse, era stata troppo
precipitosa nel chiamarsi fuori. Chissà se gli interessati consigli che
sta ricevendo dai suoi (ex?) alleati, così intrisi di antichi stereotipi
di genere, non la facciano guardare con maggiore spirito critico alle
sue battaglie contro “la teoria gender”.