Repubblica 15.3.16
Il populismo della paura
di Roberto Toscano
NON
è uno tsunami. In nessuno dei tre Laender dove si è votato domenica si è
registrato un cambiamento radicale degli assetti politici, e sarebbe
certamente prematuro parlare di un inarrestabile declino di Angela
Merkel. E tuttavia quello che emerge dalle urne è qualcosa di più di un
avvertimento.
SI tratta di un segnale da non trascurare
soprattutto perché dimostra la forza crescente di un partito,
l’Alternativa per la Germania - AfD che ha ricavato una spinta
sostanziale (fino al 25 per cento circa ottenuto in Sassonia-Ahnalt) da
una singola questione, il problema delle migrazioni. Populismo? Certo,
se per politica populista intendiamo il dare risposte semplici a
problemi complessi e dire alla gente quello che la gente vuole sentire,
non quello che è giusto dire. Ma, soprattutto se ampliamo la nostra
ottica oltre i confini della Germania, faremmo bene a non fermarci a una
definizione — piuttosto un epiteto — che ormai, nell’uso corrente,
abbraccia troppo (da destra a sinistra, da Marine Le Pen a Bernie
Sanders), fino a perdere ogni significato.
Il populismo è sempre
esistito, e si può anzi dire che costituisca una componente di ogni
ricerca del consenso. Va anche aggiunto che i politici con tasso di
populismo uguale a zero non hanno mai avuto molto successo, mentre lo
stesso non si può certo dire degli iper-populisti, disinvoltamente
incuranti sia della coerenza che della logica, ma spesso vincenti. E
allora ha più senso passare dalla forma al contenuto. Il populismo che
in tutta Europa, e non solo in Germania, è diventato un serio fattore è
un populismo molto specifico: il populismo della paura. Paura
d’invasione da parte di centinaia di migliaia di persone che vengono a
rubarci il lavoro in tempi di stentata crescita economica e a competere
sul terreno dei benefici sociali in un momento in cui il welfare tende
ad essere ridotto. La paura non ha solo una natura economica, ma tocca
la sfera dell’identità culturale (gran parte dei migranti sono
musulmani) e della sicurezza (quanti terroristi possono infiltrarsi fra i
migranti?). Tutti problemi reali ai quali andrebbero date risposte
serie in termini sia di razionalità politica sia di sostenibilità
economica, ma senza dimenticare chi siamo come europei. O forse verrebbe
da dire come credevamo di essere, visto che in quasi tutti i paesi
dell’Unione sembra aumentare una deriva xenofoba che minaccia di
distruggere la nostra identità molto di più che non la comparsa del velo
islamico nelle nostre strade o di minareti nei nostri paesaggi.
Il
populismo della paura parte dai problemi reali per passare a proposte
del tutto fantasiose. «Chiudere le frontiere»: come se l’esperienza non
avesse abbondantemente dimostrato che i movimenti di popolazione possono
essere regolati, non totalmente impediti, e che non si è ancora
inventato un confine davvero invalicabile. «Proibire l’ingresso dei
musulmani»: dimenticando che in Europa già ci sono milioni di musulmani
come prodotto dell’eredità coloniale (Regno Unito, Francia) o delle
esigenze economiche (Germania), tanto che sarebbe giusto parlare non
solo di migranti musulmani, ma anche di “musulmani europei”. «Sospendere
Schengen»: una prospettiva che minaccerebbe di essere fatale per
l’Unione Europea, e che per noi italiani risulterebbe particolarmente
negativa, dato che ci troveremmo nelle condizioni in cui si trova la
Grecia, dove sono bloccati migliaia di rifugiati senza sbocco. Una
prospettiva tutt’altro che ipotetica nel momento in cui la chiusura
della frontiera macedone sta per produrre una diversione del flusso
verso l’Albania in direzione dell’Adriatico e dell’Italia. Risposte
semplici (e insensate) a problemi complessi. Ma i dirigenti politici che
cavalcano la paura, anzi la stimolano sistematicamente, hanno un’agenda
che va oltre il problema delle migrazioni. Hanno una strategia politica
molto più ambiziosa, e — pur con tutte le differenze che li
caratterizzano — condividono un’ideologia di fondo: quella della
“democrazia illiberale”. Un sistema politico dove il popolo viene
consultato, ma dove il potere, ottenuta la legittimazione elettorale,
chiude gli spazi del pluralismo e impone l’omogeneità definendo quella
che deve essere l’identità della nazione. Le democrazie illiberali già
esistono: la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin, per esempio. E non
è un caso che il Front National di Marine Le Pen abbia la simpatia (e
anche l’appoggio materiale) di Mosca, e che Salvini, da noi, simpatizzi
apertamente con le posizioni della Russia - dove dove si è riesumata la
vecchia identità (Russo = Ortodosso) della Russia zarista. È l’opposto
di quel “patriottismo costituzionale” che si pensava caratterizzasse
irreversibilmente l’Europa: una comune e forte appartenenza, come
cittadini, aperta a una pluralità di origini etniche, fedi, tendenze
politiche. È una regressione politico-culturale che avanza accompagnata
da una retorica che non ha problemi di credibilità e nemmeno teme il
ridicolo, come non lo teme il Ministro degli esteri polacco
Waszczykowski, secondo cui bisogna respingere un mondo fatto di «una
nuova mescolanza di culture e razze, un mondo di ciclisti e
vegetariani». Purtroppo, non basterà una risata per fermarli.