Repubblica 14.3.16
Shakespeare a Gerusalemme e il teatro diventa ponte tra i popoli
A Torino “Amleto” di Paolini e Vacis Dal 29 marzo con attori palestinesi
di Anna Bandettini
TORINO
FRA LE case popolari di Moncalieri, nelle ex fonderie trasformate in
teatro, da qualche giorno vivono e lavorano cinque ragazzi arrivati
dalla Palestina. Artisti tra i 22 e i 28 anni stanno provando Amleto a
Gerusalemme, in cui Shakespeare incrocia le loro storie “vere” dolorose,
incredibili, echi di una realtà feroce, confusa, greve che i
telegiornali e i giornali da laggiù raccontano a spicchi ogni giorno.
Nidal Jouba rievoca il dolore della madre che nella Guerra dei sei
giorni ha perso la propria casa ma ne conserva ancora le chiavi,
Mohammad Basha Alaa il complesso, tortuoso viaggio quotidiano da Hebron a
Gerusalemme, spesso sotto le fogne per evitare i ceck point. Un altro
racconta la sua storia di disperazione e droga, qualcuno la difficoltà
di amare una donna, tutti, Nidal, Mohammad, Ivan Azazian, Abu Gharbieh e
Bahaa Sous hanno parenti e amici uccisi o scappati.
A guidare e
“osare” una lavoro così sono Gabriele Vacis e Marco Paolini, tornati
insieme dai tempi del celeberrimo Vajont del ’94 il capostipite di tanto
teatro-narrazione. Regista uno, attore l’altro, non credevano nemmeno
loro alle possibilità di riuscire a fare lo spettacolo: perché per far
arrivare i cinque ragazzi dalla Palestina ci sono state difficoltà su
difficoltà nonostante il sostegno del nostro ministro degli Esteri,
perché sono arrivati due settimane dopo l’avvio stabilito delle prove, e
perché adesso lo sforzo di tutti è di non trasformare la presenza dei
ragazzi «in una bandierina pro-Palestina», come dice Paolini, «perché
così li freghi. Loro sono qui con la stessa voglia che porta tanti
calciatori del sud del mondo nell’olimpo del calcio. Sono qui a mostrare
di essere bravi attori, non solo palestinesi sfigati».
Amleto a
Gerusalemme debutterà il 29 marzo, alle Fonderie Limone, con il Teatro
Stabile di Torino e a vederlo in prova l’impressione è forte. Si recita
in arabo, inglese, italiano, nella bella scena di Roberto Tarasco, dove
l’intero palcoscenico è occupato da 2500 bottiglie di plastica che
formano la mappa di Gerusalemme, con Moschea, Santo Sepolcro, e
Sinagoghe, distrutta e ricostruita molte volte nel corso dello
spettacolo, su cui si profilano minacciosi suoni di aerei e esplosioni.
Ivan che è musicista e cantante, intona una bellissima canzone, gli
altri recitano pezzi di Amleto come una nenia, accanto a loro recitano
Khaled Elsadat, egiziano, Anwar Odeh, una giovane palestinese di Torino,
e poi Matteo Volpengo e Giuseppe Fabris attori italiani, e Paolini.
Non
è casuale l’occasione di questo incontro a più voci. «Nel 2008 fu l’Eti
a propormi di fondare una scuola di teatro finanziata dalla
cooperazione italiana a Gerusalemme, al Palestinian National Theatre,
che era l’unica sala pubblica della Palestina, 350 posti nel El-Hakawati
Theatre a Gerusalemme Est», spiega Vacis. Il Palestinian Theatre, nato
nell’84, oggi non c’è più: conflitti interni tra i giovani e i veterani,
debiti... è finita che lo spazio è tornato all’autorità israeliana. Ma
prima della chiusura la scuola era stata fatta: 36 allievi tra cui i
cinque artisti oggi a Torino. «Era un patto d’onore verso di loro fare
lo spettacolo», dice Paolini. E Vacis: «È bello lavorare con loro perché
sono attori presenti a se stessi. Si vede che sono abituati a stare
sempre all’erta, attenti a quello che succede intorno: hanno una
presenza di vita rara nei nostri attori». Amleto l’hanno voluto loro
perché, spiega, fa capire, dà speranza alla loro vita. «Ha tutte le
sfaccettature delle vite complicate di chi sta in Palestina. Quei
ragazzi sono tutti Amleto, anche loro devono decidere quotidianamente se
agire o non agire. Agire contro qualcuno o per fare qualcosa? Questo è
il problema. Sono sottoposti a un quotidiano impedimento, a partire dai
check point e poi la situazione palestinese interna non aiuta. Come in
Amleto: hai Fortebraccio alle porte che spinge, ma poi hai i tuoi
problemi interni ».
A qualcuno ciò darà un senso di grande
attualità (che non si può negare), molti lo leggeranno come un valore
polemico nei confronti di Israele. «Se si ragiona così sono fregati in
partenza - dice Paolini - Prendiamo in giro i ragazzi ogni volta che
insistono sul loro essere palestinesi o quando raccontano troppe sfighe.
Né è un progetto dello spettacolo essere contro Israele». «Non vogliamo
nemmeno entrare nella questione israelo-palestinese, ma solo raccontare
storie ancora non raccontate - spiega Vacis - Io stesso ho programmato
produzioni importanti e prestigiose israeliane, dalla danza al teatro.
La Palestina non ha narrazione, eppure vivere con loro fa capire quanto
complessa sia la realtà mediorientale: per esempio c’è una differenza
tra la gente di Israele e il governo Netanyahu. Ho visto con i miei
occhi israeliani ai check point a controllare che non vengano fatte
violenze sui palestinesi, così come giovani palestinesi considerare il
vero nemico l’Isis. Credere di possedere la verità, in quella zona del
mondo, produce solo dolore per tutti». E alla fine, dice Paolini: «Se
per andare a vedere cinque attori palestinesi, mi devo poi leggere
almeno un libro di Amos Oz per sentirmi la coscienza a posto, bene: hai
fatto due cose buone invece di una».