Repubblica 14.3.16
Se i democratici (e non solo) non sanno più che cosa vogliono
di Piero Ignazi
IN
tutti i grandi partiti, e a volte anche nei piccoli, il conflitto tra
le diverse componenti è la fisiologia della vita interna: l’unanimismo,
invece, una pericolosa patologia. Il Pd deve molto a Matteo Renzi per
aver creato una nuova corrente — chiamiamola la “leopoldina” — grazie
alla quale l’antica conflittualità tra Veltroni e D’Alema è stata
rottamata, e nuove idee e persone sono emerse. L’irruzione di un gruppo
di outsider raccolti attorno alla magnetica personalità dell’ex sindaco
di Firenze ha scompaginato dinamiche ossificate ed ha fatto entrare aria
fresca. Non a caso, lo scontro tra Renzi e Bersani, con l’aggiunta di
un ulteriore outsider come Civati, nel corso del 2012 aveva proiettato
il Pd a percentuali mai viste prime. Questo a dimostrazione che una
buona dose di conflittualità può essere salutare. A parte di non
debordare in una rissa continua.
Uno dei primi problemi che la
leadership laburista di Tony Blair affrontò fu proprio quello di gestire
le tensioni interne con meccanismi inclusivi per evitare contraccolpi
negativi sull’elettorato. I dissensi comunque rimasero, tant’è che un
certo Jeremy Corbyn, dopo aver votato per 552 volte contro provvedimenti
del proprio governo, senza che nessuno si fosse mai sognato di prendere
provvedimenti contro di lui, alla fine è diventato il leader del Labour
Party. I grandi partiti democratici sanno fare tesoro delle differenze
interne.
Il Pd seguì questa strada quando Bersani, con un gesto di
grande generosità, impose una modifica alla statuto per consentire a
Renzi di sfidarlo alle primarie nel 2012. Ora, però, di quella
generosità non c’è più traccia. Ogni critica alla segreteria è
considerata un delitto di lesa maestà. Addirittura, nel corso delle
votazioni per la riforma della costituzione si sono minacciate
espulsioni a chi non votava la fiducia. La minoranza interna doveva
essere “asfaltata”, secondo il gergo soft della attuale dirigenza
democrat. Non stupisce che la segreteria, abituata alle critiche intrise
di bonomia emiliana di Bersani, reagisca inviperita ad una intervista
affilata e senza sconti come quella di Massimo D’Alema. Anzi, arrivi ad
introdurre la categoria dell’”odio politico”, una categoria francamente
infantile e dal sapore vagamente berlusconiano, se si pensa a quando il
Cavaliere parlava del partito dell’amore e dei dispensatori di odio.
I
partiti non sono prati di Heidi, sono campi di battaglia dove ci si
scontra per la conquista o il mantenimento del potere. Ma una battaglia
senza regole condivise diventa distruttiva. L’impasse del Partito
democratico è quella di non avere ancora trovato un modus vivendi tra
l’iper-personalizzazione della leadership e le dinamiche proprie della
democrazia intra-partitica.
Nel Pd, così come in tutti gli altri
partiti, gli organi collegiali sono diventati irrilevanti. Lì non si
discute e non si progetta. Del resto, lo stesso Renzi non metteva quasi
mai piede nelle direzioni del Pd quando era in minoranza. E non aveva
tutti i torti. Però adesso non può pensare di risolvere tutto in una
rapida mattinata con una direzione lampo.
Il Partito democratico
per troppo tempo ha “esternalizzato” le proprie tensioni verso gli
elettori utilizzando le primarie come una valvola di sfogo. E ora che la
polemica sale di tono perché le opposizioni si stanno risvegliando da
un lungo sonno, partono ostracismi e demonizzazioni. Così, il confronto
sul profilo organizzativo e valoriale del Partito democratico non
decolla. Tutto viene rimandato all’azione di governo.
Ma un
governo non è per sempre, mentre i partiti hanno vita lunga, e vanno
attrezzati sia per le fasi del potere che per quelle dell’opposizione.
Solo che il Pd non sa ancora cosa vuole. A dire il vero tutti i partiti
progressisti europei hanno difficoltà ad indicare prospettive
convincenti. Certo non possono nascere dall’autoreferenzialità in cui è
avvolta la dirigenza del Pd. Sorgono semmai da un confronto aperto,
dialogico e inclusivo. Un compito che spetta a chi ha la guida del
partito.
Forse anche l’opposizione ha qualche idea su come un
partito di sinistra debba rispondere alle domande più pressanti dei
cittadini quali la lotta alla corruzione e allo spreco delle risorse
pubbliche, la riduzione delle diseguaglianze sociali, la protezione dei
ceti più deboli anche in termini di sicurezza personale, e la creazione
di futuro investendo nell’istruzione.