Repubblica 13.3.16
I tabù del mondo
Telemaco fratello di Edipo senza complesso
Cerca il padre e, in viaggio, rischia la sua vita
Il
personaggio dell’Odissea è un’alternativa positiva alla vita maledetta
del protagonista della tragedia di Sofocle. Perché non assume la memoria
della sua origine come una catena. Ma si fa carico attivamente
dell’eredità lasciatagli da Ulisse
Per oltrepassare davvero il
genitore, un figlio deve riconoscere la sua alterità. Diversamente ci si
condanna a una lotta vana, che non si risolverà mai
di Massimo Recalcati
Per
il perverso la Legge degli uomini non merita rispetto perché è solo una
maschera per difendersi dalla scabrosità della pulsione e dalla sua
volontà di godimento. Ogni tabù, primo fra tutti quello del padre, deve
essere dissolto dalla forza inceneritrice della sola Legge che conta,
quella del godimento per il godimento. Ne l’Odissea di Omero i giovani
principi che pretendono di sostituire con la violenza e il sopruso
Ulisse nella sua funzione di re di Itaca e di marito di Penelope sono
una rappresentazione del carattere assoluto del desiderio perverso:
vogliono in sposa una donna che potrebbe essere una madre, dichiarano
morto suo marito senza averne le prove, non tengono conto della volontà
dell’assemblea imponendo alla parola la forza arbitraria delle armi,
invadono la casa del loro re, offendono e stuprano le sue serve,
saccheggiano le provviste, non rispettano la Legge dell’ospitalità e la
sua sacralità che costituisce la trave portante di tutto il mondo greco.
I Proci sono la rappresentazione di una giovinezza alla deriva, perduta
nella notte di un godimento senza limiti che non arretra di fronte
all’immagine del padre. Con essi entra in contrasto la figura di
Telemaco, il figlio che Ulisse non ha potuto crescere lasciandolo ancora
in fasce per partire per la guerra di Troia. Ne Il complesso di
Telemaco (Feltrinelli) ho proposto la sua figura come quella del figlio
giusto in quanto giusto erede. Egli, infatti, diversamente dai Proci,
non entra in un conflitto mortale col padre, non vuole la morte di chi
lo ha generato, non cancella con violenza il debito simbolico che lega
tra loro le generazioni. Al contrario; Telemaco sa che senza la
ricostruzione di una alleanza simbolica tra padri e figli non si potrà
in alcun modo riportare la Legge ad Itaca. In questo senso Telemaco è
una alternativa positiva alla vita maledetta di Edipo. Mentre il
personaggio di Sofocle si cava gli occhi dopo aver scoperto la sua vera
identità di figlio incestuoso e parricida, quello di Omero ricerca il
volto assente del padre. Struggenti e indimenticabili per forza e
tenerezza sono i versi del canto XVI dell’Odissea nei quali si racconta
l’incontro tanto atteso tra il padre e il figlio nell’umile capanna del
porcaro Eumeo: «E Telemaco, abbracciando il padre glorioso, versava
lacrime fitte. Entrambi avevano voglia di piangere, e piangevano forte,
gemendo più degli uccelli, più delle aquile o degli avvoltoi dagli
artigli ricurvi a cui i contadini rubarono i piccoli prima che avessero
messo le ali. Così, pietosamente versavano lacrime da sotto le ciglie».
Un
abisso separa questa scena dal duello mortale di Edipo con il padre
Laio. Ma la forza di Telemaco non consiste tanto nel rovesciare la
spinta parricida nell’esigenza di una nuova alleanza tra padri e figli.
Certo, questa figura, per come l’Odissea l’ha scolpita, è anche una
figura della nostalgia: Telemaco è in attesa del ritorno del padre. Ma
non è questo il tratto che rende questo figlio – diversamente dai Proci –
un figlio giusto, un giusto erede. La forza di Telemaco è nel mostrarci
che l’eredità non consiste nel ricevere passivamente rendite, beni o
geni dai nostri avi, ma, come indica Freud, citando Goethe a conclusione
della sua ultima opera dal sapore testamentario, titolata Compendio di
psicoanalisi, «ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi
possederlo davvero». Questa, solo questa, è la forza più propria di
Telemaco; egli non si limita ad attendere nostalgicamente il ritorno del
padre, ma si mette in viaggio verso Pilo e Sparta, rischiando la sua
vita. Telemaco non è una figura passiva dell’attesa, ma una icona del
figlio che di fronte all’assenza del padre impugna il proprio desiderio.
È, infatti, solo il viaggio del figlio di fronte all’assenza del padre –
ma un padre non è forse sempre la presenza di un’assenza? – a rendere
possibile il ritorno del padre e della Legge a Itaca.
Ho definito
“generazione Telemaco” la generazione dei nostri figli che di fronte al
declino irreversibile dell’autorità simbolica del padre non vivono, come
i Proci e Edipo, la necessità destinale della lotta a morte col padre,
ma quella di farsi eredi giusti, ovvero di mettersi in moto, di
rischiare la propria vita nel loro viaggio. Perché essere figli giusti,
cioè eredi, non significa incassare il bottino dell’eredità, ma
spingersi, esporsi, compiere il proprio cammino nel mondo. Telemaco
infrange un nuovo falso tabù che è stato fomentato da una concezione
solo puberalmente trasgressiva del desiderio: per essere eredi bisogna
volere la morte del padre, liberarsene, fargli la pelle. Egli, al
contrario, mostra che il lutto autentico del padre si può compiere solo
se si riconosce il debito che ci lega e l’assenza che, sempre, la sua
presenza porta con sé. L’odio per il padre in nome di una libertà
assoluta getta la vita in un legame impossibile da sciogliere. L’erede,
invece, può avanzare nel suo viaggio perché non assume la memoria della
sua provenienza come una catena, un peso inerte, una maledizione – come
accade per Edipo – ma il reale di cui egli è fatto. Per oltrepassare
davvero il padre bisogna riconoscere la sua alterità. Diversamente i
figli si condannano ad una lotta vana, destinata a non risolversi mai,
nel nome di una emancipazione illusoria contro il tabù del padre. Ma se
il debito non è assolto, è fatalmente destinato ad allargarsi. Nessun
sentimento, infatti, come l’odio resiste al passare del tempo.