Repubblica 12.3.16
Europa e Turchia, se la realpolitik diventa un’umiliazione
Quale futuro avremo se con Ankara rinunciamo ai nostri principi democratici?
di Massimo Riva
PEGGIO
che penoso, davvero umiliante lo spettacolo offerto dai maggiorenti
europei genuflessi dinanzi alle sfrontate pretese del governo di Ankara.
Ma quale Europa si vuole costruire per il futuro, quale lascito si vuol
preparare per figli e nipoti da parte di una classe dirigente
continentale così tremebonda da aver perfino paura di difendere i
principi essenziali del convivere in una comunità democratica? La
libertà d’informazione, che in Turchia oggi viene sistematicamente
conculcata e repressa, non è un ricco e superfluo accessorio della
macchina democratica. Ma ne costituisce — sembra purtroppo il caso di
ricordarlo — un valore fondante e al tempo stesso uno strumento a
presidio di tutte le altre libertà.
La “realpolitik” può forse
giustificare i termini cinici di un negoziato sui migranti che assume a
momenti i contorni di una tratta di essere umani. Ma non può spingere i
rappresentanti di quella che ama definirsi la culla della democrazia a
ignorare quanto accade, giorno dopo giorno, in Turchia dove una sorta di
Mussolini in terra anatolica consolida il suo potere monocratico
spegnendo con la forza le voci di opposizione e perseguitando le
minoranze. Gli infelici esperimenti del giovane Bush hanno sepolto
definitivamente la folle illusione che la democrazia si possa esportare
sulla punta delle baionette. Ma di qui a far finta di nulla dinanzi a un
regime che fa strame della libertà di stampa ci sta di mezzo un abisso
tremendamente pericoloso. Perché l’indifferenza su temi così cruciali in
casa altrui rischia di essere sintomo allarmante di una sensibilità
parimenti indebolita dentro le mura domestiche. L’arrendevolezza di
Bruxelles a fronte delle scelte repressive del pluralismo
dell’informazione in atto in Ungheria e in Polonia ne sono già
drammatica avvisaglia.
Si obietterà che qualcuno, al recente
incontro con i turchi, ha pur sollevato la questione. Lo ha fatto il
presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, e pure il nostro
presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Verissimo, ma l’esito di queste
loro pronunce è stato quasi nullo o addirittura controproducente. Il
fatto che tutto si sia risolto in una riga del comunicato ufficiale
nella quale si dice che il tema della libertà di stampa in Turchia è
stato discusso si ritorce come un boomerang. Perché è come confessare
che sì, si sarebbe anche sensibili all’argomento, ma al tempo stesso non
si vuol far nulla. Cosicché anche le parole di Schulz e di Renzi
suonano come una condanna senza pena. In sostanza pratica,
un’assoluzione.
Oltre a quello dell’informazione, il dossier
Turchia imporrebbe alle democrazie europee di aprire un altro
contenzioso non meno pressante: quello del trattamento riservato alle
minoranze, segnatamente a quella curda. In materia l’Europa ha un debito
secolare, anzitutto verso se stessa e i suoi conclamati valori, per
l’inerzia totale mostrata a suo tempo durante la persecuzione degli
armeni. Ebbene, su questo punto il silenzio di Bruxelles e delle altre
capitali europee è addirittura totale. Chissà, forse ci toccherà
aspettare che fra qualche anno un epigono di Franz Werfel scuota
tardivamente le coscienze del Vecchio continente con un nuovo
sconvolgente racconto di un altro Mussa Dagh in terra curda.
Quel
che più turba di questo stato dell’arte politica in Europa è il ritorno
di fantasmi del passato in un continente che sembra però aver smarrito
la sua memoria storica. Su tutto e tutti sembra così dominare un
crescente sentimento di paura che dalle basi della società risale
pericolosamente ai vertici dei singoli stati. Un clima debilitante che
ricorda fin troppo da vicino quello che un’ottantina di anni fa fu
chiamato lo “spirito di Monaco” per rimarcare l’imbelle e pavido
atteggiamento delle allora residue democrazie europee dinanzi alle
sopraffazioni della dilagante onda nazi-fascista. Oggi è come se queste
lezioni della storia non avessero lasciato traccia alcuna nelle menti di
chi governa nell’Unione europea. Si arriva al punto di affidarsi al
filo spinato in Paesi che dovrebbero avere qualcuno l’orrore e altri la
vergogna di evocare la parola stessa. Si farnetica di immaginare
l’Europa chiusa come una fortezza, immemori di quel che diceva lapidario
e lungimirante il generale De Gaulle ai tempi della mitica e inutile
Maginot: «Le fortezze sono fatte apposta per essere espugnate».
Ora
la partita con la Turchia è aggiornata al prossimo round fra qualche
giorno. C’è ancora un po’ di tempo per sperare che la classe dirigente
europea abbia quel soprassalto di coraggio politico per contrastare la
deriva della paura che finora con la propria irresolutezza ha alimentato
nelle diverse opinioni nazionali. Non si vorrebbe dover tornare
malinconicamente a rileggere quella stupenda pagina scritta da Sartre
sul ritorno di Daladier da Monaco nel 1938 nella quale il premier
francese guarda la folla esultante per gli “accordi di pace” e —
consapevole dell’inganno sottoscritto — mormora sconsolato: “Ma che
coglioni!”.