sabato 12 marzo 2016

Il Sole 12.3.16
Il ricatto di Erdogan sui migranti
La debolezza Ue favorisce la spregiudicatezza turca: indignarsi non basta
di Sergio Fabbrini

Il Consiglio europeo che si è concluso lunedì scorso non ha fatto “un passo in avanti” (come hanno detto il nostro premier e il cancelliere tedesco) con riguardo alla politica migratoria. Anzi l’ha aggrovigliata ancora di più collegandola alla ‘questione turca’. Nelle conclusioni di quel Consiglio europeo, l'Unione europea (Ue) riconosce che non è in grado di gestire da sola l’afflusso di milioni di migranti e rifugiati che arrivano nel nostro continente. È divisa al suo interno, con ogni Stato membro preoccupato della propria situazione politica. Alcuni di essi (7), più altri (2) che non ne fanno parte, hanno deciso unilateralmente di chiudere le proprie frontiere o di introdurre controlli rigidi ai passaggi. Lo spazio Schengen di libera circolazione si sta sgretolando. Non riuscendo a gestire autonomamente l'afflusso di migranti e rifugiati, i leader europei si sono rivolti alla Turchia affinché ne blocchi il movimento verso i paesi europei. Quest’ultima, che pure ospita nel suo territorio più di 2,5 milioni di rifugiati siriani, ha colto l’occasione per rientrare, da protagonista, nel gioco europeo. Il suo presidente Erdogan sa che il cancelliere Merkel ha bisogno di una riduzione drastica degli arrivi dei rifugiati e migranti in Germania (che sono attualmente molto più di 1 milione), se vuole avere la possibilità di vincere le prossime elezioni federali (ottobre 2017) oltre che le elezioni che si terranno domani in 3 laender importanti. Quindi, come fa Putin con il gas, apre o chiude il rubinetto dei rifugiati che vogliono spostarsi verso nord in base alla risposta dei leader europei alle sue richieste. Ovvero: ulteriori finanziamenti, anticipazione della libera circolazione dei cittadini turchi nella Ue, accelerazione delle procedure per fare entrare la Turchia nella Ue. La debolezza europea favorisce così la spregiudicatezza turca. È legittimo indignarsi. Ma non basta.
Occorrerebbe invece tener distinte la questione migratoria e quella turca. La questione migratoria richiede una riforma del policy-making. A Maastricht, nel 1992, la politica migratoria fu inserita tra le politiche della giustizia e degli affari interni, politiche da gestire attraverso un metodo intergovernativo nel cosiddetto Terzo Pilastro. Negli anni successivi, quel Pilastro fu gradualmente sovra-nazionalizzato, in particolare per quanto riguarda gli aspetti della sicurezza e dell'anti-terrorismo. La Commissione ha accresciuto il suo potere di iniziativa legislativa, promuovendo un coordinamento più stretto tra gli Stati membri. Tuttavia, la politica dell’ordine interno ha continuato ad essere gestita attraverso accordi intergovernativi, con ogni Stato membro geloso di preservare le proprie prerogative nazionali in questo campo. Tant’è che quando è arrivato lo tsunami dei rifugiati siriani, la Ue si è trovata senza una comune politica dell'asilo, una comune definizione dei paesi non-europei da considerare a rischio, una comune polizia di protezione delle sue frontiere esterne. Possiamo prendercela con il premier ungherese Orban o con il cancelliere austriaco Fayman perché chiudono unilateralmente le frontiere dei loro paesi, ma dobbiamo prima di tutto prendercela con un sistema della politica migratoria che non consente di giungere a decisioni efficienti e vincolanti. I sistemi decisionali (come quello per la politica migratoria) che si basano solamente sul consenso vanno bene per tempi di bonaccia, non già di tempesta. Se la politica dei rifugiati non verrà sottratta alla logica intergovernativa, allora non ci sarà soluzione al dramma che stiamo vivendo. Un primo passo potrebbe essere una cooperazione volontaria e rafforzata tra quegli Stati membri dell'Ue che concordano sulla necessità di giungere alla gestione sovranazionale del problema dei rifugiati.
Diversa è la questione turca. La sua soluzione richiede necessariamente una revisione dei Trattati. Invece l’ambiguità continua a connotare la risposta europea alla richiesta turca di entrare nella Ue. La Turchia é un membro della Nato al cui interno assolve il ruolo importante di garantire la sicurezza dell’Alleanza sul versante orientale. La Turchia é un grande mercato importante per le imprese e le esportazioni europee. Ma la Turchia è anche un Paese altamente nazionalistico, sia nella sua versione religiosa che in quella laica. È una democrazia illiberale che legittima il potere attraverso le elezioni, ma rifiuta di controllarne l’esercizio attraverso bilanciamenti costituzionali e sociali. Come, ad esempio, attraverso una libera stampa. La “rule of law” non sempre è di casa nel Palazzo Bianco di Ankara, come abbiamo visto con la chiusura del principale giornale di opposizione una settimana fa. È evidente che la collaborazione militare ed economica con la Turchia è strategica per l’Europa. Ma è anche evidente che una Turchia nazionalista e illiberale, se entrasse nella Ue, costituirebbe un fattore di ulteriore destabilizzazione di quest'ultima. Ma a Bruxelles, e non solo lì, si continua a coltivare l'ambigua idea che la Turchia, prima o poi, entrerà nella Ue. E allora perché stupirsi che, al Consiglio europeo di lunedì scorso, il governo turco abbia avanzato richieste che assomigliano ad un ricatto? Accettando quel ricatto, la Ue accentuerà la sua crisi anche se il cancelliere tedesco potrà forse vincere le prossime elezioni.
Non si può risolvere la questione turca senza una differenziazione costituzionale tra l’unione economica del mercato e l’unione politica della moneta. Se rispetta precise condizioni, il nazionalismo turco è compatibile con un mercato comune, ma non con un'unione politica. Ecco perché occorre tenere distinte la questione migratoria e quella turca. La prima richiede un accelerato processo di riforma interna ai Trattati, la seconda un cambiamento di questi ultimi. Aggrovigliando le due questioni, non si risolve la prima e si peggiora la seconda.