il manifesto 12.2.16
464 inchieste contro gli accademici turchi
Turchia.
Dopo la petizione contro la campagna anti-kurda prosegue l'attacco ai
professori universitari. Erdogan reprime tutti, anche le donne che
scendono in piazza per chiedere uguaglianza
di Chiara Cruciati
Ieri
la corte di Istanbul ha emesso un ordine di arresto per Ekrem Dumanli,
ex redattore di Zaman (quotidiano di opposizione commissariato una
settimana fa) con l’accusa di aver insultato il presidente turco
Erdogan.
Per l’impellenza delle censure più recenti, forse
qualcuno se ne era dimenticato ma sul capo di oltre mille accademici
turchi pesa ancora il pericolo di finire dietro le sbarre: dall’11
gennaio sono stati aperti 464 fascicoli di inchiesta contro professori
universitari colpevoli di aver firmato, quel giorno, una petizione per
chiedere la fine delle operazioni militari contro la popolazione kurda.
Due
mesi fa 33 di loro erano già finiti in prigione per qualche giorno, per
poi essere rilasciati. Ma la ragnatela della censura di Stato ha
continuato a intrappolarli: dalla pubblicazione della petizione 9 dei
firmatari sono stati licenziati dalle proprie università, 5 hanno
lasciato il posto a causa delle incessanti pressioni esterne, 27 sono
stati sospesi.
Ad operare, per mano del governo, sono le stesse
istituzioni accademiche pubbliche, piegate al volere del sultano. Ma si
muovono anche le università private: qui 21 professori sono stati
cacciati, uno è stato costretto al pre-pensionamento e 43 sono sotto
inchiesta amministrativa.
Agli altri pensa la longa manus della
magistratura: 153 procedimenti penali sono già stati aperti, mentre i
fascicoli totali di inchiesta contro gli accademici sono 464. Ciò
significa che 153 di loro sono già accusati di reati penali, ovvero
insulto alle istituzioni dello Stato e propaganda terroristica, crimini
per i quali si rischia fino a 5 anni di prigione. Sugli altri si sta
investigando.
La petizione incriminata (firmata anche da
autorevoli colleghi stranieri, tra cui Noam Chomsky e David Harvey) era
stata accolta da 1.128 accademici di 89 diverse università. Dal titolo
«Non saremo parte di questo crimine», svelava «il massacro» in corso nel
sud est a maggioranza kurda per mano dell’esercito e della polizia.
Quell’operazione
è ancora in corso: sebbene alcune campagne locali siano state
ufficialmente chiuse, altre sono state aperte. Dall’altra parte del
paese a subire le repressione sono le donne, tornate in piazza per l’8
marzo. Il 6 centinaia di donne avevano protestato per le discriminazioni
strutturali in ambito economico, sociale e politico: la Turchia è 125°
su 140 paesi secondo il Global Gender Gap Index 2014; il tasso di
occupazione è solo al 28% (contro il 63% della media europea); e il 40%
delle turche denuncia di aver subito violenze domestiche almeno una
volta nella vita.
La risposta del governo sono stati i proiettili
di gomma. Ankara non era riuscita a impedire le manifestazioni: «Abbiamo
sempre detto che non avremmo mai lasciato le strade l’8 marzo e non lo
faremo – raccontava una manifestante – Né la polizia né il governo ci
fermeranno». Il bilancio finale è stato di una donna arrestata e decine
ferite.
Due giorni dopo Istanbul e Ankara sono state presidiate
per evitare altre proteste e molte donne hanno reagito con piccoli
raggruppamenti nelle strade principali e il lancio di uova e ceretta
contro i poliziotti. Intanto il presidente Erdogan celebrava la Giornata
della Donna con il più trito dei machismi: «Una donna è prima di tutto
una madre».
Una dichiarazione che segue a exploit precedenti:
perle come ‘le donne dovrebbero avere almeno tre figli’ o ‘il controllo
delle nascite è tradimento’. Ma non si tratta solo di parole: il governo
dell’Akp lavora da tempo per intaccare il diritto all’aborto e alla
pillola del giorno, mentre non interviene in merito agli abusi di
genere.