La Stampa 12.3.16
Se la guerra uccide anche la politica
di Domenico Quirico
La
pace è diventata solo un armistizio, lo stato naturale è la guerra, una
specie di cancro che assorbe tutte le forze vive, occupa tutti gli
spazi, schiaccia la vita. E’ così: solo che quando ce n’è troppa, allora
diventa monotona come la pace. Ecco: in Libia la politica è stata
uccisa, di vivo c’è solo guerra. La frase di Von Clausewitz secondo cui i
conflitti non sono altro che la prosecuzione della politica con altri
mezzi oggi non ha più alcun significato, è inattuabile. Perché dopo una
guerra come questa, così naturale e assoluta, non ci sarà nulla,
negoziato, spartizione altro regime. Solo un’altra guerra. Tutto ciò che
è politica sembra gettato via e dimenticato, in questo luogo non si fa
che sbrigare il lavoro che la battaglia, imperiosamente, richiede. Come
in fabbrica e nei campi. Noi chiediamo ai libici atti politici. Loro
possono darci solo atti di guerra. Le stesse soluzioni diventano una
parte del problema, lo complicano. Non ci si batte per uno scopo. Non ci
sono più scopi. Si combatte e basta.
Lo capisci guardando i
combattenti che presidiano Tripoli o questi villaggi dall’aspetto di
mucchi di macerie biancastre come se fossero precipitati dal cielo sulla
terra. Più le nazioni come Siria, Somalia o Libia hanno i confini erosi
dal massacro e più si strappano dal cuore guerrieri piene di sangue. A
Nord a Sud ad Ovest: dappertutto battaglie di queste guerre nuove che si
autoalimentano. Dovunque ci si volti la guerra è in qualunque punto di
questa vastità. Questa massa smisurata di poveri manovali delle
battaglie che hanno costruito con le loro mani questa immensa guerra
sono manovrati da quelli che, grandi o piccoli sensali del caos, vivono
in guerra e sono in pace durante la guerra, che proclamano
l’irriducibile antagonismo tra le tribù, o che abbindolano e
addormentano, perché il massacro non si plachi, con la morfina dei loro
futuri paradisi. Trasformano la ricchezza del paese, il petrolio, in
famelica patologia. La guerra, qui, ha partoriti uomini nuovi, il loro
rapporto con il conflitto permanente definisce la loro identità.
Noi
pensiamo e agiamo come se ci fosse un fine, un momento in cui le armi
dovranno necessariamente tacere e tra le fazioni o «i governi», (che
spesso costruiamo noi per dare volto ai nostri progetti) emergeranno
nuovi equilibri. E allora, automaticamente, le trattative la diplomazia
il mercanteggiamento politico la fragile concordia troveranno un
assestamento.
Questo ai tempi delle guerre antiche: quelle che
leggendo lo stratega prussiano erano facili a capirsi come un film, di
quelli che in qualunque momento entri in sala, dopo due o tre scene,
conosci subito l’intreccio, chi ha ragione e chi ha torto. Ora nessuno
tra i protagonisti ha interesse che la guerra in Libia finisca. Perché
segnerebbe così la propria fine. A Tripoli una milizia controlla il
catasto, vende i titoli di proprietà di coloro che sono fuggiti o
militano per altre fazioni. Come potrebbe desiderare la pace? Sono
moderni capitani di ventura, spesso più imprenditori che strateghi, che
la guerra nutre arricchisce e giustifica nella loro esistenza. Perfino
la vittoria sarebbe una sciagura, li renderebbe inutili. L’equilibrio
permanente della mischia è lo stato perfetto. I gruppi di banditi lo
vogliono perché la pace segnerebbe la loro scomparsa, la fine dei
sequestri e della gozzoviglia, i «partiti», fratelli musulmani, uomini
di Tobruk, governo in esilio, perché nessuno di loro ha,
contemporaneamente, la forza e la legittimità. Se ne ha una manca
dell’altra. E allora la guerra garantisce di restare in scena.
Gli
uomini del califfato, loro sì, hanno un progetto politico che va oltre
la guerra permanente e imporrebbe una pace cimiteriale, il paradiso in
terra: ma la conclusione è remota nel tempo e per ora solo la confusione
della guerra offre loro uno spazio e possibilità di azione.
La
guerra è una cosa semplice. Occorrono solo tre cose in fondo: armi
uomini e denaro. Soprattutto denaro, che assicura le altre due. E in
Libia non manca. C’è il petrolio, risorsa senza fine. Farla finita con
la guerra sarebbe come impedire le tempeste. Oscuri sciami di umanità si
ritirano uno dopo l’altro in se stessi, riassorbiti dal loro male
misterioso. Un amico libico indica con la mano l’intera larghezza
dell’indescrivibile paesaggio del deserto e ripete la frase: questa è la
guerra… ed è così dappertutto, tremila chilometri di tragedie eguali,
dal confine egiziano a quello tunisino e giù giù fino in fondo al
deserto…. domani si ricomincia e come si è ricominciato l’altro ieri e
tutti i giorni precedenti… volete venire qui per salvarci ma sapete che
per farlo dovrete uccidere la guerra nel ventre della Libia…?