Repubblica 12.3.16
Quei padri nell’orrore di Roma
di Stefano Cappellini
ANCHE
i delitti, come le sconfitte, tendono a essere orfani. Il delitto del
Collatino, a Roma, più degli altri. La comprensione del dramma che ha
investito le famiglie dei due assassini non rende infatti meno
perturbanti le parole che i loro padri hanno reso all’opinione pubblica.
Il primo — quello di Manuel Foffo — seduto su una poltrona di “Porta a
porta” a poco più di ventiquattr’ore dal delitto, il secondo — quello di
Marco Prato — con un post pubblicato giovedì sul suo blog.
Foffo
senior, assicuratore, ha ritenuto di presentarsi in tv per informarci
del brillante quoziente intellettivo del figlio, studente fuori corso,
per dare conto della sua indignazione alla notizia del consumo di
cocaina («Come hai fatto a scendere così in basso? », è stato il
rimbrotto paterno).
E IN definitiva per trasecolare di fronte alle
gesta di quello che davanti alle telecamere ha definito «un ragazzo
modello». A chi cercasse lumi sulle ragioni della violenza, ha
consegnato questo movente: «Manuel è stato molto turbato dalla morte
dello zio».
Prato senior ha scelto una linea diversa. Si è messo
alla tastiera e ha scritto un post che attacca così: “Care amiche ed
amici, voglio ringraziarvi pubblicamente per i tanti, tanti messaggi che
mi avete mandato”. Segue un lungo sfogo nel quale, a differenza
dell’altro genitore, non si spinge a dare definizioni del figlio, anzi
di lui quasi non parla (lo cita una volta sola, come per dovere di
cronaca), come del resto non sciupa una riga sulla vittima, nemmeno per
un superficiale cordoglio. Si sofferma a lungo sulla qualità del suo
curriculum di operatore culturale, che testimonierebbe di una vita spesa
a coltivare valori opposti al male deflagrato nell’appartamento del
Collatino. Il titolo del post recita così: “Sono sempre io, nonostante
tutto”. E infatti l’ansia che traspare dallo scritto è la riaffermazione
della propria biografia, la volontà di smacchiarla dagli schizzi degli
accidenti della vita e di mettersi tutto alle spalle, come lo incitano a
fare i messaggi di solidarietà che cita testualmente, virgolettandoli, e
come rivendica la chiusa: “Ci accingiamo con passo lieve ad
attraversare questa tempesta”. Un tentativo di spiegare quanto è
accaduto non c’è, nemmeno in forma opinabile o partigiana o assurda.
Solo si scrive: “Forse pensiamo di poter avere un ruolo decisivo nei
rapporti umani e famigliari ma non è sempre così”. L’unico accenno ai
fatti è per contestare le ricostruzioni giornalistiche (“Verità di
comodo”) e per accusare i media “di aver fatto a brandelli tre
famiglie”, senza che un uomo con una così alta opinione della propria
cultura si renda conto di aver accomunato il dolore di tutti, vittime e
carnefici, e per giunta in una sciagurata metafora, dato che una di
queste famiglie, a brandelli, si è vista restituire il corpo del figlio.
Il padre di Foffo difende il figlio a dispetto di tutto, il padre di
Prato difende se stesso. Le madri per ora tacciono, in questa vicenda
nella quale le donne sono tutte comparse fuori campo, come la mamma di
Foffo che vive un piano sotto l’appartamento dove tutto si è consumato, a
quanto pare nulla capendo e nulla sospettando. Troppo poco per trovare
un bandolo di raziocinio e umanità in questa matassa avvelenata.
L’orrore
gratuito dell’omicidio, la socialità allucinata e patologica in cui è
maturato, hanno per una volta scatenato l’urgenza di capire: come è
stata possibile l’irruzione della violenza più incontrollata in un
contesto tutt’altro che marginale e disperato? Quanto è sottile, per
migliaia di giovani, il confine tra una più o meno malintesa
trasgressione e lo scatenarsi di una brutalità cieca e inumana?
L’inadeguatezza e la parzialità delle risposte a nostra disposizione è
resa ancora più drammatica dalla voce di questi genitori che hanno
offerto punti di vista il cui unico effetto è stato quello di
ingigantire il disorientamento e lo choc.
Forse l’unica utilità,
nelle parole di questi padri, è nell’ammonirci a non restringere troppo
il campo delle domande, a non indulgere nel luogocomunismo (sui giovani
d’oggi) sempre pronto a eruttare e a dispensare, di fatto, altre
autoassoluzioni. L’idea che il male del mondo sia figlio di un’inerzia
che spinge al peggio è più rassicurante di un’indagine sulla società che
tutti contribuiamo a formare, e i genitori con più responsabilità dei
figli, sempre ammesso che uomini di trent’anni, come i responsabili
dell’omicidio, possano sfuggire alla definizione di adulti.
In
questa storiaccia c’è un concentrato di allarmi sociologici: gli effetti
della tossicodipendenza più estrema, l’ideologia della sopraffazione
come sballo, gli effetti sociopatici, sulle personalità più fragili, di
quel rullo narcisistico nel quale si incanalano le nostre esistenze
digitalizzate. Ma nessuno di questi allarmi, forse, è più inquietante
delle incapacità dei padri di dire, di capire, di provare a spiegare e
spiegarsi, per quanto umanamente possibile.