Repubblica 11.3.16
Una sola strada per il caso Regeni
di Carlo Bonini
INVITATI
dalla procura generale egiziana per ordine del presidente Al Sisi, il
procuratore di Roma Pignatone e il suo sostituto Colaiocco saranno
dunque al Cairo per trasformare quella che sin qui è stata il simulacro
di un’indagine congiunta sull’omicidio di Regeni in una cosa seria.
O,
quantomeno, che cominci a somigliarle. È una buona notizia. Che non
necessariamente è garanzia che la verità sia dietro l’angolo o che la
sua ricerca avrà tempi rapidi, ma, certamente, che della ricerca della
verità esistono ora presupposti non evanescenti. Qualcosa di più
concreto e meno urticante della vuota enfasi delle insistite
dichiarazioni affidate a una feluca di ambasciata a Roma, di “verità
investigative” che suonavano solo come calunniose provocazioni e
depistaggi, o ancora delle furbizie di chi sin qui aveva scommesso sul
passare del tempo come soluzione alla crisi aperta tra i due Paesi.
C’è
una seconda buona notizia. Quirinale, governo, Palazzo Chigi,
Parlamento (maggioranza e opposizione insieme, per una volta non
prigioniere di pulsioni cannibali come nel caso degli ostaggi in Libia),
forti della spinta dell’opinione pubblica, possono oggi rivendicare con
soddisfazione di aver costretto il regime di Al Sisi a dismettere il
campionario di velenosa fuffa in cui aveva evidentemente pensato di
annegare la questione. Ad aprire una fessura nel muro di gomma alzato il
3 febbraio scorso. Hanno compreso e fatto del “caso Regeni”, come è
ragionevole attendersi in un Paese che non ha smarrito il senso di sé,
una questione la cui posta in palio non è soltanto il composto dolore e
la coraggiosa richiesta e ricerca di giustizia di una famiglia e dei
suoi legali, ma una prova di dignità nazionale. A dispetto del
rassegnato cinismo in nome del quale solo degli ingenui o degli
sprovveduti potrebbero pensare di sacrificare sull’altare Regeni
interessi a nove, dieci o dodici zeri (gas, banche, infrastrutture) o al
cruciale ruolo strategico che in questo momento ha l’Egitto nella
soluzione della crisi libica e nel contrasto a Daesh.
Detto
questo, le buone notizie finiscono qui. Perché l’invito egiziano impegna
anche l’Italia. E in modo molto diverso da quanto non sia stato sin
qui. Dunque, per non trasformare l’arrivo al Cairo di magistrati
competenti come Pignatone e Colaiocco e il lavoro di Ros dei carabinieri
e Sco della polizia in un’ennesima photo opportunity, in un
salamelecco, buono per i gonzi ed esiziale per la credibilità della
nostra magistratura e dei nostri investigatori, oltre che per la ricerca
della verità, sarà necessario che chi, a Roma, ha contribuito a dare
alla vicenda Regeni un nuovo giro dimostri estremo rigore nei giorni,
mesi, che ci attendono. Questo significa non avere paura della verità,
piccola o grande che dovesse rivelarsi. Non acconciarsi a soluzioni
pasticciate e soprattutto avere il coraggio, se dovesse essere
necessario, se questa “fase due” dell’inchiesta dovesse cioè rivelarsi
nei fatti solo il prolungamento di una melina durata già cinque
settimane, di rovesciare il tavolo. Questa volta davvero. Pagando il
prezzo che dovesse rendersi necessario. Nulla infatti risulterebbe più
intollerabile agli occhi del Paese che quella che oggi viene salutata
come “una svolta” per la verità, ne diventi la tomba con la complicità
di chi la chiede. È una responsabilità che è sulle spalle del governo,
del Parlamento, ora anche della Procura di Roma. In parte, anche di
questo giornale, che ha fatto proprio con Amnesty l’appello per la
verità sulla morte di Giulio e che non rinuncerà a continuare a fare
l’unico mestiere che conosce. Non smettere di cercare e raccontare la
verità dei fatti. Al Cairo, come a Roma.