Repubblica 10.3.16
Le due infallibilità papali
di Alberto Melloni
CI
SONO almeno due modi di leggere la prerogativa della infallibilità
personale del romano pontefice definita al concilio Vaticano I nel 1870:
uno eccitante ed uno rigoroso.
Il primo modo, non estraneo a Pio
IX, è quello che mette enfaticamente l’accento su questa decisione
facendo diventare l’infallibilità personale una infallibilità tout
court. Massimalisti del tempo e dello spazio, questi lettori del
Vaticano I presentano per ragioni ora apologetiche ora polemiche quel
dogma come un potere che non nasceva dalla lotta dell’Ottocento fra
chiesa e modernità, ma da una necessità teologica. Pio IX – ma non era
né il primo né l’ultimo – non vedeva in quella lotta l’agonia del regime
di cristianità che aveva dato alla chiesa potere e ne aveva appannato
l’evangelicità, ma unicamente una minaccia. Se dunque si fosse dato il
caso di una perversione generalizzata della chiesa, sarebbe rimasta nel
“papa solus” tutto il potere per dire in modo solenne, dunque “ex
cathedra”, la verità della fede.
Questo, secondo i massimalisti,
modificava lo statuto stesso del papato: rendeva insomma indispensabile
perfino una certa “devozione al papa”, come custode ultimo di un tesoro
essenzialissimo di verità sulla fede e sui costumi. Ma su questo era in
certo modo d’accordo anche chi – come Hans Küng – negli anni Settanta
vedeva nella infallibilità l’ostacolo all’ecumenismo e la consacrazione
di un regime monarchico del cattolicesimo che in parte ha ispirato gli
ultimi dieci secoli.
L’altro modo di pensare alla infallibilità
del papa era ed è meno entusiasmante: non eccita il super-papismo e non
piace tanto nemmeno a quei critici che vedono lì lo snodo identitario di
un cattolicesimo. È il modo di chi sottolinea che nella definizione del
Vaticano I non si crea nulla: anzi si perimetra quella prerogativa così
bene da renderla quasi inutilizzabile.
Fin dal diritto canonico
medievale si discettava sulla possibilità che nella apostasia generale
lo Spirito custodisse la fede in alcuni, in pochissimi, o, come pensava
Ockham, in uno solo. Ed erano stati proprio i francescani detti
“spirituali”, legati alla pratica rigorosa della povertà sancita dal
papa, che sostennero ed argomentarono la irreformabilità delle prime
decisioni papali contro quelle più lassiste prese dai successori. Così
che, per mettere al riparo un principio di pauperismo estremo, dovettero
diventare estremamente “papisti”. Più tardi, al concilio di Firenze del
1438-1439 si codificò il principio che l’infallibilità della chiesa nel
credere potesse concentrarsi in circostanze estreme nel solo papa di
Roma: e da lì fu possibile al Vaticano I fare una definizione poco
fruibile.
Perché la storia dice questo: e infatti l’infallibilità
personale del pontefice non è stata praticamente mai usata, mai nelle
condizioni estreme previste da Pio IX. Il dogma dell’assunzione di Maria
– comune anche all’oriente cristiano che lo chiama “dormizione” – fu
proclamato da Pio XII nell’anno santo del 1950: ma non con
l’infallibilità personale. La Munificentissimus Deus di papa Pacelli
dice infatti: egli risponde “al singolare consenso” di vescovi e fedeli,
al “consenso universale” del magistero e dei cristiani e al “quasi
unanime consenso” dell’episcopato consultato. Non dunque una
infallibilità personale e solitaria del papa, ma una concordia di cui il
papa si fa voce.
Tantomeno il papato successivo ha mai usato di
quella prerogativa, che il Vaticano II riconduce dentro l’alveo di una
concezione della chiesa come comunione. Solo una riga della
Evangelium
Vitae – quella nella quale Giovanni Paolo II dice di voler “confermare”
che l’aborto è “disordine morale grave” – può essere considerata un
pronunciamento infallibile. Molti sostengono che fu merito di Joseph
Ratzinger aver circoscritto con quelle virgolette le tre parole della
pronuncia papale: ma che essa abbia il crisma della solennità dottrinale
o dell’infallibilità personale, è applicata ad un principio condiviso
dai teologi.
La perimetrazione così stretta della infallibilità ha
insomma impedito che la condanna della contraccezione ormonale o
meccanica da parte di Paolo VI venisse letta, come qualcuno tentò di
fare come una pronuncia infallibile. E ha spinto lo stesso Ratzinger
come prefetto di curia a costruire una terza figura – quella del
magistero “definitivo” – nell’illusione di mettere al riparo di un
aggettivo diverso temi a suo giudizio rilevantissimi: e che invece, come
notava non senza amarezza in un discorso del 2000, proprio per questo
sono stati discussi e spesso decostruiti dai teologi.
Per questo
risulta difficile credere che il problema delle riforme di Papa
Francesco passi dalla impensabile cancellazione di un atto conciliare
del 1870. È se mai la comprensione storica di quel testo e della sua
efficacia che può cambiarne il “funzionamento” anche in senso ecumenico.
Perché
quando Francesco dice il vescovo ha da stare ora in testa, ora in
mezzo, ora dietro un gregge di cui riconosce l’intuito di fede (il
“sensus fidei”), disegna un altro modo di esercitare la funzione
episcopale e dunque anche la funzione del vescovo di Roma e il ministero
come papa nella comunione fra le chiese. Che lascia quelle discussioni
ad una stagione violenta della vita cattolica – quella delle condanne
del post-concilio di cui Küng è stato bersaglio catarinfrangente – e
guarda ad una stagione nella quale l’infallibilità della chiesa torna ad
esprimersi nel consenso che incontra lo sforzo di comunione delle
chiese.