domenica 6 marzo 2016

La Stampa TuttoLibri 6.3.16
Joseph Stiglitz
Una cura da Nobel per far salire i poveri sulla scala della ricchezza
L’economista vicino a Bernie Sanders spiega come ridistribuire (in tempi lunghi) i redditi
di Mario Deaglio


Giugno 1990: è questa la data di nascita della povertà globale. Prima di allora la povertà era un problema interno di ogni singolo paese. Con la pubblicazione, in quel mese, del tredicesimo Rapporto sullo Sviluppo Mondiale da parte della World Bank - un volume dalla copertina nero pece, con sopra una carta geografica del mondo e la parola «Povertà» in un inquietante color marrone – il problema diventa globale.
Negli anni Novanta il divario tra i redditi medi dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri cominciava a ridursi ma aumentava parallelamente, e continua ad aumentare, all’interno di quasi ogni paese, il divario tra i ricchi e gli altri. Nei paesi avanzati, gli ultimi dieci anni hanno visto lo «scivolamento» verso il basso, in termini non solo di redditi ma anche di opportunità, di una parte considerevole della classe media e, contemporaneamente, la concentrazione dei nuovi redditi e della nuova ricchezza in una minuscola frazione della classe agiata, talora inferiore all’uno per cento della popolazione.
La crescente diseguaglianza dei redditi si intreccia con il loro irrigidimento persino negli Stati Uniti che hanno fatto della mobilità sociale il principale antidoto alle tensioni sociali. Chi immigra negli Stati Uniti da un Paese povero ha ancora la possibilità di trovare rapidamente un lavoro (precario) per acquistare (a rate) un’auto. Gli è sempre più difficile, però, fare ciò che era quasi normale per le precedenti generazioni di immigrati, ossia salire qualche gradino sia della scala economica sia della scala sociale. A un certo punto (molto in basso) la scala si è spezzata; si è creata una frattura, apparentemente irrimediabile, tra chi sta sopra e chi sta sotto.
Questa frattura rappresenta una sorta di ferita aperta nel tessuto di economico-sociale di tutti i paesi «moderni» e può minarne la stabilità. Il suo sorgere è probabilmente da collegarsi al mutamento dei modi di produzione provocato da Internet e tende ad approfondirsi in maniera preoccupante. Joseph Stiglitz ha affrontato il problema in maniera sistematica nel 2012 con un vero e proprio trattato sulla diseguaglianza globale e su come combatterla, pubblicato in Italia da Einaudi nel 2015 (Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro). Ora torna su questo stesso argomento con una raccolta di articoli e saggi, di notevole vivacità e di maggiore accessibilità anche ai non specialisti (La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla, appena uscito per i tipi di Einaudi).
Stiglitz è un progressista e naturalmente la sua «casa» politica è nel partito democratico e recentemente ha mostrato particolare attenzione al candidato «di sinistra» Bernie Sanders e potrebbe forse diventare suo consigliere nel caso di una sua vittoria. È stato capo dei consiglieri economici di Bill Clinton e successivamente capo-economista del Fondo Monetario Internazionale e, oltre ad aver prodotto contributi teorici di primissimo piano (con lo studio dei mercati con «asimmetrie informative» che mette in luce alcuni limiti del libero mercato e che gli è valso il premio Nobel) è attivissimo nell’occuparsi della cosa pubblica. Unisce la pacatezza dei toni con la durezza dei contenuti; propone, senza retorica soluzioni dure ma pragmatiche, da realizzare in tempi lunghi.
Una parte dei contributi «politici» di Stiglitz degli ultimi anni è ora accessibile al lettore italiano (che è anche, nella grande maggioranza dei casi, un elettore italiano) nelle pagine de La grande frattura. Stiglitz non esita a chiamare «folle» un certo tipo di capitalisti, in larga misura legati alla grande finanza e, in un saggio uscito su «Vanity Fair» nel 2009; un altro suo saggio dello stesso anno, scritto in uno stile sobrio e brillante, è intitolato Anatomia di un omicidio: chi ha ucciso l’economia americana? ed è strutturato come un processo in cui la banca centrale e l’élite politico-finanziaria americana sono dettagliatamente chiamati a rispondere di insuccessi e complicità. In questo come in altri scritti del medesimo volume la conclusione può essere così sintetizzata: i mercati dipendono dalla politica e la politica riflette gli interessi delle classi sociali dominanti.
Stiglitz non è un «miracolista», non propone soluzioni semplici o, peggio, semplicistiche. Avverte che la cura richiederà una lunga e dura azione di redistribuzione dei redditi in senso maggiormente egualitario e richiede un forte movimento di opinione pubblica. Al di là dell’essere, come si diceva una volta, di «destra» o di «sinistra», nel preoccupante vuoto di idee e di programmi che si è delineato in Europa, questo suo libro dovrebbe essere una lettura obbligata per chiunque, da qualsiasi posizione, si proponga di cambiare l’economia di questo paese e di questo continente.