La Stampa TuttoLibri 6.3.16
Tra lune e venti, all’origine dello Zero
La “caccia” di un matematico, dal casinò di Montecarlo ai templi khmer in Cambogia
di Piero Bianucci
Lo
zero è ovunque intorno a noi. Parlare al cellulare, vedere tv e dvd,
ascoltare musica, scattare foto, girare video, inviare mail, sms e
tweet, navigare in Internet, usare tablet e computer, sempre è
immergersi in un oceano di zeri. Il mondo digitale si fonda sullo Zero e
il suo vicino, l’Uno, che corrispondono nei microprocessori ad assenza o
presenza di elettricità, interruttori aperti o chiusi. Curiosamente nei
simboli 0 e 1 Leibniz vide una metafora della creazione, cosa che gli
attirò gli sberleffi di quel materialista di Laplace. Oggi entrambi
sarebbero più cauti.
Eppure ci fu un tempo, neanche tanto lontano,
in cui lo zero non c’era. C’erano però gli altri numeri, astrazioni
tratte dall’esistenza stessa degli oggetti fisici: una operazione così
primordiale che il neuroscienziato Giorgio Vallortigara ha riconosciuto
il concetto di «numerosità» in galline che controllano le loro uova. Ma
lo zero inteso come numero e come segno che cambia il valore di tutti
gli altri numeri a seconda della posizione è un’idea recente: emerge nel
nostro medioevo dalla numerazione araba.
Gli arabi definivano
indiani i loro numeri. Dunque venivano dall’India? Amir Aczel,
matematico scomparso nel 2015, fu folgorato da questa domanda mentre,
ragazzino, navigava sulla nave da crociera che suo padre comandava da
Haifa a Montecarlo. A bordo incontrò uno steward, l’ungherese Laci (si
dice lotzi), matematico laureato all’Università di Mosca, che lo iniziò
alla straordinaria storia dei numeri. Memorabile fu l’incontro con lo
zero quando Laci con uno stratagemma lo introdusse nel Casinò di
Montecarlo e lì scoprì che lo zero era il numero più importante: con lo
zero tutti i giocatori perdevano e vinceva il casinò.
In Caccia
allo zero racconta decenni di ricerche spesi per scoprire il primo zero.
I numeri arabi arrivano in Europa introdotti da Leonardo di Pisa
(1170-1250). Fibonacci nel Liber abaci (1202) collega la parola zero
all’arabo sifr, che suona come un soffio, e la associa al latino
zephirum, vento primaverile che spira da ponente. In un diario talvolta
anche troppo minuzioso, visitando biblioteche e monumenti in India,
Thailandia, Laos e Vietnam, Aczel passa da una retrodatazione all’altra,
finché in Cambogia giunge all’Iscrizione K-127 del VII secolo, trovata
negli Anni 20 presso Sambor sul Mekong, tradotta per la prima volta in
francese dal Khmer antico da Georges Coedès e pubblicata nel 1931. In
essa compare lo zero più antico che si conosca: indica il quinto giorno
della Luna calante e correva l’anno 683 della nostra era. Smarrita
durante il regime di terrore dei Khmer Rossi, portata in salvo in un
capanno all’Angkor Conservation e riscoperta da Aczel il 2 gennaio 2013,
l’iscrizione K-127 è ora nel Museo Nazionale della Cambogia a Phnom
Penh, al quale già apparteneva.
Lo zero rimanda ai concetti
filosofici di nulla e di non essere, con gli annessi paradossi. Mentre
Carlo Magno fondava il suo impero (800 d.C.), l’abate Fredegiso di Tours
si domandava «se il nulla sia qualcosa»; se lo è, esiste, ma allora il
non essere diventa essere, contraddizione diabolica insita nei concetti
di zero e di nulla.
Questi giochi dialettici impallidiscono di
fronte allo zero e al nulla dei fisici. Per convincersene basta leggere
La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, pp. 334, 19 euro) di Guido
Tonelli, un protagonista della scoperta della particella di Higgs. Il
fotone, la particella della luce, deve avere massa zero, altrimenti non
potrebbe correre a 300 mila km al secondo, massima velocità consentita
in natura. Per lo stesso motivo dovrebbe avere massa zero il gravitone,
particella associata alle onde gravitazionali di cui è appena stata
annunciata l’osservazione.
Ma c’è di più. Avrebbero massa zero
anche tutte le altre particelle se non provvedesse il bosone di Higgs a
conferire loro specifiche masse, il che giustifica in parte l’etichetta
giornalistica di «particella di Dio». Lo stesso prevalere della materia
sull’antimateria – cui dobbiamo l’esistenza nostra e dell’universo –
sarebbe un dono che ci ha fatto Higgs introducendo nel cosmo, qualche
istante dopo il Big Bang, una lieve asimmetria: è questa incrinatura
all’origine della «nascita imperfetta delle cose» che Tonelli racconta
nel suo libro. Ma se fotone e gravitone hanno massa nulla, non è nulla
il vuoto dei fisici. E’ anzi un pullulare di particelle e antiparticelle
virtuali che si annichilano a vicenda. Un nulla pieno di tutto per
qualche intervento diabolico, o meglio per il principio di
indeterminazione di Heisenberg. Il che è quasi la stessa cosa.