Corriere La Lettura 6.3.16
La guerra fa parte della natura dell’uomo
Sulle rive del lago Turkana, in Kenya, diecimila anni fa si combatté
una furiosa battaglia, con molte vittime. Ma fu davvero la prima della storia?
In
realtà, spiegano due studiosi, l’origine e l’uso delle armi sono assai
più antichi. Addirittura di milioni di anni. E avrebbero a che fare
con il nostro patrimonio genetico
di Patrizia Tiberi Vipraio e Claudio Tuniz
C’è
stato chi, come Papa Francesco, ha affermato che siamo all’inizio della
terza guerra mondiale. Saremo in grado di disinnescarla? Molto dipende
dalla nostra natura più profonda. Come sappiamo, gli ingredienti
comprendono armi di ultima generazione, estremismi religiosi,
terrorismo, scricchiolii degli edifici finanziari, politici e sociali
costruiti dall’umanità, o almeno da quella parte che sta consumando
tutte le risorse del pianeta. Prima di queste ultime guerre
contemporanee possiamo elencare un numero infinito di altri conflitti
umani, portati a termine con materiali che rendevano sempre più efficace
la nostra violenza organizzata: l’uranio e il plutonio erano stati
preceduti dallo zolfo della polvere da sparo e, in tempi più remoti, dal
ferro, dal bronzo, da altri metalli utili per forgiare spade e armi
sempre più efficaci. Prima ancora, all’alba dell’umanità, usavamo la
pietra per creare asce acheuleane, le armi di un milione e mezzo di anni
fa.
Su «la Lettura» del 21 febbraio (#221), Carlo Rovelli ci
parla di quella che, a suo avviso, sarebbe stata una delle prime guerre
umane, combattuta sulle rive del lago Turkana, in Kenya, diecimila anni
fa. In quel caso furono usate micidiali armi di ossidiana, una pietra
vulcanica molto dura ma perfettamente lavorabile, particolarmente adatta
a penetrare nella carne umana (in tempi recenti è stata usata come
bisturi in medicina). Decine di uomini, donne (una anche incinta) e
bambini sono stati rinvenuti con il cranio, le costole e molte altre
ossa fratturate. Questa prima strage (documentata) sarebbe quindi
avvenuta prima dell’inizio dell’agricoltura e dell’allevamento, quando,
si riteneva, l’abbondanza avrebbe generato le prime guerre. Non molto
prima in effetti. E questo ci consola. Forse la nostra inclinazione alla
guerra potrebbe essere un fatto recente e quindi più facilmente
sanabile. Ma è proprio così?
Il lago Turkana è un sito iconico per
gli studiosi di evoluzione umana. Come ricorda bene anche Edoardo
Boncinelli («la Lettura» del 5 luglio 2015, #188) è stato l’ambiente in
cui gli ominidi da cui forse discendiamo sono riusciti a inventare i
primi strumenti di pietra, oltre tre milioni di anni fa. Questo ha
segnato l’inizio della nostra propensione a usare strumenti esterni al
nostro corpo per sopravvivere, in una continua interazione fra capacità
manuali e capacità cerebrali che, attraverso l’apprendimento e
l’espansione del pensiero, ha portato fino a noi.
Queste armi
erano già adatte per attaccare gli animali e combattere altri ominidi.
Esistevano già allora, infatti, risorse preziose e limitate per cui
competere, ad esempio una pozza d’acqua nella savana. Nella scena
iniziale di 2001 Odissea nello spazio , Stanley Kubrick aveva
rappresentato in modo molto suggestivo l’alba dell’uomo, facendola
coincidere con l’inizio di questo tipo di conflitti, già milioni di anni
fa. Guerra e violenza facevano sicuramente parte della vita dei nostri
antenati ominidi, diventati sempre più potenti con il crescere del loro
cervello e delle loro capacità di distruzione. Il seme della guerra
doveva essere presente sin da quando, milioni di anni fa, ci siamo
immaginati padroni delle asce di pietra e del fuoco. In altre parole,
quando si è creata la prima distinzione tra «essere» dotati di qualche
caratteristica anatomica di difesa o di attacco e «avere» a
disposizione, grazie alla nostra immaginazione e alla nostra abilità,
strumenti che fossero in grado di potenziare le nostre capacità di
sopravvivenza.
È qui che nasce, probabilmente, la prima
manifestazione della ricchezza: chi possiede un’arma è più ricco di chi
non ce l’ha. Questo tema ci accompagnerà fino ai nostri giorni, segnando
i caratteri dominanti della nostra linea evolutiva. L’organizzazione
della violenza è cresciuta assieme al nostro cervello (e alla nostra
immaginazione), fino ad arrivare agli eccidi di oggi. Le guerre devono
essere avvenute per decine di migliaia di anni, precedendo di gran lunga
quella del lago Turkana, e quindi anche quelle che molti storici
attribuiscono prima al controllo delle risorse agricole (che sono alla
base delle antiche civiltà conosciute) e poi al presidio delle vie di
comunicazione.
Tuttavia, non è facile trovare le prove di guerre
combattute in tempi molto lontani. Eppure, l’intuizione di Kubrick
sembra essere suffragata dalle ultime ricerche. Basta assumere che il
suo monolito nero illuminato rappresenti quello sviluppo mentale che ci
rese capaci di immaginare. Divenuta sempre più potente, questa capacità
ci avrebbe portati a vivere sempre più in un mondo che è mero frutto
della nostra immaginazione, permettendoci di formare società complesse.
Questo ci induce a qualche considerazione sull’essenza della natura
umana e su come e perché ci siamo divisi fra amici e nemici, fra «noi» e
«loro».
Per capire il comportamento tipico della nostra specie
riteniamo che non dobbiamo studiare la nostra natura in base a ciò che
«vorremmo essere», ispirandoci a qualche costruzione ideale che poi
assumiamo come vera solo perché opportuna o desiderabile; e nemmeno in
base a miti, quali ad esempio quello del «buon selvaggio» che ci siamo
inventati, senza un briciolo di prova, per esorcizzare gli eccessi di
violenza di cui ci vediamo capaci. Fa bene Giorgio Manzi a dubitare
della sua validità (sempre su «la Lettura» del 31 gennaio, #218). La
natura umana di riferimento dovrebbe essere invece quella che emerge dal
caleidoscopio di comportamenti effettivamente osservati nel corso della
nostra storia evolutiva. Qualcosa che è dualistico, ma anche
multiforme, qualcosa che varia a seconda della prospettiva da cui si
guardano gli eventi.
Facciamo un esempio osservando il presente.
Sappiamo che spesso sviluppiamo degli atteggiamenti ostili verso tutti
coloro che riteniamo diversi da noi. Questo può dipendere dal fatto che
parlano lingue incomprensibili oppure che hanno un aspetto insolito e
altre abitudini. Diventiamo particolarmente aggressivi quando temiamo
che essi ci creino problemi economici e sociali, minacciando il nostro
stile di vita. Le diversità che ci infastidiscono possono riguardare il
colore della pelle, la fisionomia, lo status sociale, le preferenze
sessuali, quelle alimentari, le ideologie politiche, i credi religiosi e
altro ancora. D’altra parte a volte mostriamo anche una propensione
alla cooperazione e all’empatia. E questo significa che possediamo anche
uno spirito di solidarietà. Va tuttavia osservato che tendiamo a
definire i confini fra «noi» e «loro» — fra coloro con cui ci
identifichiamo e quelli che consideriamo nostri nemici — in maniera
variabile a seconda delle circostanze: può essere il campanile, la
nazione, l’etnia, la religione. Le aree d’inclusione e di esclusione, se
rappresentate, possono apparire come figure che si espandono e si
comprimono in continuazione, su molte dimensioni, penetrandosi a
vicenda.
Allora vale la pena riflettere su come nasce questa
abitudine umana di tracciare un confine, vario e variabile, fra
individui. Si tratta solo di retaggi culturali, sociali ed economici,
che possiamo combattere? O sono distinzioni che dipendono dalla nostra
struttura genetica e da come funziona il nostro cervello? Secondo
recenti studi (pubblicati sull’«Annual Review of Anthropology» alla fine
del 2015) sembrerebbe che questo tratto dualistico della nostra natura
sia fra i principali responsabili del nostro originario successo come
specie. Eppure potrebbe trattarsi anche di una mina vagante, nella
società multietnica e multiculturale in cui viviamo oggi. Vediamo
perché.
Quando, 150 mila anni fa, abbiamo dovuto attraversare un
periodo caratterizzato da improvvisi cambiamenti climatici, esistevano
almeno quattro specie umane, che abitavano diverse aree del pianeta: i
nostri antenati sapiens vivevano in Africa, i Neanderthal in Europa e in
Asia occidentale, i denisoviani nell’Asia nord-orientale, e i minuscoli
uomini di Flores (i cosiddetti Hobbit) nel Sud Est Asiatico. Vivendo in
aree lontane e separate fra loro non c’erano allora molte occasioni di
conflitto tra specie diverse; né eravamo ancora un pericolo per gli
altri animali o per l’ambiente. A un certo punto, in Eurasia, il freddo e
i ghiacciai cominciarono a espandersi. I Neanderthal si spinsero così
verso l’Italia meridionale e la Spagna. L’Africa era invece devastata da
ondate di siccità, che rendevano la savana sempre più brulla e
ampliavano le aree deserte. Anche noi sapiens cercammo quindi di porci
in salvo. Gli studi genetici e archeologici mostrano che in
quell’occasione, nel tentativo di lasciare l’Africa, ci riducemmo
considerevolmente di numero.
Le ricerche svolte negli ultimi anni
ci rivelano tuttavia che gli ambienti costieri dell’Africa costituirono
la salvezza per i nostri diretti antenati. Essi erano ricchi di cibi
succulenti, molluschi e altri prodotti acquatici. Il nostro cervello si
era ingrandito enormemente nei precedenti due milioni di anni. Ora si
potevano selezionare le connessioni neuronali giuste per adeguarci alle
mutate condizioni ambientali. Per sopravvivere e prosperare serviva
formare, per la prima volta, bande di difesa territoriale.
Nell’entroterra non era particolarmente utile coordinarsi in grandi
gruppi, poiché il cibo era sparso, mobile, e non prevedibile. Le
alleanze si limitavano a certe occasioni di caccia grossa, mentre il
costo di presidiare ampi territori per impedire l’accesso ad altri era
elevato. Sulle coste avevamo trovato invece un nutrimento di alta
qualità, concentrato su un territorio da difendere. Inoltre potevamo
programmare lo sfruttamento di tali risorse, poiché eravamo già in grado
di comprendere il collegamento tra la luna e le maree.
Si calcola
che nella parte meridionale del continente un individuo poteva
facilmente raccogliere in un’ora molluschi equivalenti a 5.000 calorie.
In un periodo di crisi ambientale si trattava di una risorsa preziosa
per la sopravvivenza. Essa costituiva però anche occasione di conflitto
tra gruppi diversi. Nascevano così la prima proprietà privata, anche se
di gruppo, e le prime guerre territoriali. In questo modo si sarebbero
selezionati individui con geni e connessioni cerebrali favorevoli alla
collaborazione fra membri del proprio gruppo e alla competizione con
individui identificabili come appartenenti a gruppi diversi. Da qui
l’ambivalenza della nostra attuale natura cooperativa e competitiva.
Questi
caratteri non sarebbero fra loro in antitesi ma al contrario parti
integranti di uno stesso comportamento. A un certo punto, circa 70 mila
anni fa, in Sudafrica, abbiamo inventato armi da lancio con punte molto
sofisticate, ottenute riscaldando particolari tipi di pietra. Noi
sapiens potemmo così uscire dall’Africa, diventando una forza
inarrestabile. In poche migliaia di anni riuscimmo a dominare il
pianeta, causando l’estinzione di tutte le altre specie umane e di
moltissimi grandi animali del Pleistocene. Le nostre capacità
distruttive, enormemente aumentate, sono da allora rivolte contro altri
gruppi della nostra stessa specie.
Se quanto detto sopra fosse
confermato, questa distinzione fra noi e loro farebbe quindi parte non
solo delle nostre diverse culture, come sempre si dice, ma anche del
nostro patrimonio genetico. Ovviamente, durante gli ultimi 10 mila anni,
le aree da difendere o da conquistare sono proliferate: non solo le
risorse alimentari ma anche la ricchezza già accumulata, e distribuita
male, l’oro nero (il petrolio), l’oro blu (l’acqua), i mercati, le
tecnologie, i diritti dei cittadini, lo stile di vita. Basterà conoscere
la nostra natura più profonda per saperla imbrigliare? E impedire che
questa distinzione fra «noi» e «loro», inizialmente utile per la
sopravvivenza, ci porti all’autodistruzione? Se veramente la guerra
facesse parte del nostro patrimonio genetico, non basterebbe invocare
una «rivoluzione culturale», per salvarci; avremmo bisogno di una
provvidenziale «mutazione».